Qui parliamo di Gian Maria Volontè, di Alberto Rodriguez, Giuseppe Podda, di Franco Solinas e non solo_di Attilio Gatto

L’ammirazione di Massimo Mida per quell’attore ormai famoso, che però rifiutava i riti del divismo. E preferiva la vita di sempre, di tutti, ma non per snobismo, proprio perché gli veniva naturale così. L’articolo era sulla terza
pagina de L’Unione Sarda, la bella pagina culturale curata da Alberto Rodriguez. L’attore era Gian Maria Volonté, che incarnava un modo di vivere, di essere, percepito dal popolo della sinistra sotto certi aspetti come Enrico Berlinguer.

E c’è una foto che lo ritrae mentre parla in pubblico, con Berlinguer che ascolta accanto a Pajetta.
Quell’impasto di serietà e rigore, con un accenno d’ironia, lui lo ha riversato prima nel teatro e poi nei film, costruendo personaggi a cui “rubava l’anima”, come disse Francesco Rosi.
Per molti esperti di cinema, lui era l’attore, più di tutti, più di Mastroianni, più di Gassman. Per quelli della sua generazione, giovani negli anni cinquanta, Volonté era il compagno di strada che nell’immaginario collettivo del cinema incarnava insieme la realizzazione di un sogno e la narrazione dei problemi della società italiana. Non ricordo più il film – poteva essere “Giordano Bruno” di Montaldo o “Todo modo” di Petri – quando ho sentito Giuseppe Podda, classe 1930, descrivere d’impulso, con tre parole, l’arte di Gian Maria Volonté, classe ‘33:”Bravo, perché cambia…”

E “cambia” significa che offre la capacità di “cambiare” anche allo spettatore, chiamato ad indagare le verità nascoste sotto le apparenze della finzione. E tutto in una smorfia, in un urlo, in una maschera con cui l’attore, come ha detto Volonté, porta “un grande contributo linguistico al film senza per questo sottrarre nulla all’autonomia e alla libertà di espressione dell’autore.“ E dunque l’attore è autore non meno del regista. Attore-autore che “si rivolge alle componenti progressive di questa società per tentare di
stabilire un rapporto rivoluzionario tra l’arte e la vita.” Siamo alla visione brechtiana dell’artista, la consapevolezza piena di essere nel mercato e la capacità di agire e trasformare i progetti della produzione, per far passare il proprio messaggio di rinnovamento, che dia al pubblico gli strumenti per leggere la realtà.
Questa “coscienza d’artista” Gian Maria Volonté l’ha frequentata con consapevole leggerezza, anche quando Sergio Leone l’ha chiamato a interpretare il cattivo di “Per un pugno di dollari” o quando si è arruolato ne “L’armata Brancaleone” di Gassman e Monicelli. E poi i ruoli forti, l’arrogante faccia da schiaffi di “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” di Petri, la guerra con il nemico alle spalle di “Uomini contro” di Rosi da “Un anno sull’altipiano” di Lussu, la lucidità e il coraggio del “Giordano Bruno” di Montaldo.
Sono film che ancora parlano alle nuove generazioni. Il luogo della memoria è nella sua amata isola de La Maddalena, dove ha trascorso tanti anni e dove adesso risposa. È stato Gian Maria Volonté a volere che il premio dedicato al suo grande amico, lo sceneggiatore Franco Solinas, si tenesse proprio a La Maddalena. E a La Maddalena è dedicata a Volonté “La valigia dell’attore”, l’importante rassegna cinematografica ideata da Giovanna Gravina Volonté e Fabio Canu.

tratto da “Un anno sull’altipiano” di Emilio Lussu, 1960.
Lì lo ricordo mentre discuteva amabilmente con Nanni Loy, Francesco Rosi e Gillo Pontecorvo. Era l’esordio del Premio Solinas, metà anni ottanta. E la mente andava a molti anni prima, quando a Cagliari, Piazza Costituzione, nella sezione Centro del PCI, ho visto “La classe operaia va in Paradiso”. Quella faccia, quell’espressione, quella voce, indifese, impotenti di fronte
al rumore assordante della catena di montaggio, furono un pugno nello stomaco perché contenevano tutto il dramma, tutte le lotte della classe operaia. E però nella carriera di Gian Maria Volonté c’è stato anche il teatro. Fu in un “Romeo e Giulietta” del 1960, regia di Franco Enriquez, che conobbe Carla Gravina. E nel ‘61 interpretò Nicola Sacco in un “Sacco e Vanzetti” diretto da Giancarlo Sbragia.

Al cinema invece, diretto da Montaldo nel ‘71, cambiò personaggio. Sacco toccò a Riccardo Cucciolla.
Volontè fu Vanzetti, quello dei due anarchici che, prima della vergognosa sentenza di condanna a morte, parlò così:”Sì, ho da dire che sono innocente. In tutta la mia vita non ho mai rubato, non ho mai ammazzato, non ho mai versato sangue umano, io. Ho combattuto per eliminare il delitto. Primo fra tutti: lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo.” Firmato Bartolomeo Vanzetti, ma anche Gian Maria Volonté, attore di “ un cinema come percorso, come esperienza, come conoscenza.”

( a sinistra si scorge il giornalista e studioso di cinema Giuseppe Podda)
quest’ultima foto è tratta da “Cagliari al Cinema – volume secondo”
di Giuseppe Podda – Aipsa Edizioni.
In copertina: Giuseppe Podda, Gian Maria Volontè e Alberto Rodriguez.