Cagliari 1984, “Luci di Boheme” e Raf Vallone per la Cooperativa Teatro di Sardegna_di Attilio Gatto

Max Estrella è un poeta che vaga per le strade di Madrid. È notte, ma per lui non fa differenza. Max è cieco. Ed è una cecità non solo fisica. La notte si trascina “L’Esperpento”, quel che resta della tragedia, la deformazione grottesca della realtà, della vita. Cagliari, 1984. La Cooperativa Teatro Sardegna produce uno straordinario spettacolo, “Luci di Bohème” di Ramón Maria del Valle Inclán. Il protagonista è Raf Vallone, un mito, un attore applaudito in tutto il mondo. Le scene sono di un maestro, Enrico Job. La regia di Mina Mezzadri. Gli altri interpreti, Lia Careddu, Carla Chiarelli, Cesare Saliu, Luigi Mezzanotte, Franco Bisazza, Isella Orchis, Paolo Meloni, Marco Spiga, Franco Noè, Alessandro Valentini, Nanni Sortino, Barbara Simon, Maurizio Scattorin.

Tanti e tutti molto bravi, danno vita a un’opera visionaria, una storia allusiva, magica, capace di suscitare la riflessione su vicende storiche, umane, su una società in decadenza. “Luci di Bohème” è l’evento che segna, in Italia e all’estero fino al Canada, la nuova importante tappa teatrale di Raf Vallone. Per lui è come rivivere il grande successo fine anni cinquanta, “Uno sguardo dal ponte” del suo amico Arthur Miller, per la regia di Peter Brook. Lunghe file all’ingresso del “Teathre Antoine”. Centinaia di repliche in una Parigi inarrivabile, festosa ed entusiasta dell’italiano che recita magnificamente in francese. Fa impazzire le donne. Coco Chanel adorante, tra i produttori dello spettacolo. Con Brigitte Bardot ha un flirt. Con Marlene Dietrich è amicizia. E lui racconta delle conversazioni con Camus, al ristorante, ma anche con Picasso , Sartre e Simon de Beauvoir. E poi quell’intervista con Oriana Fallaci, “sulla terrazza della sua villa, a Sperlonga, affacciata al mare”. Alla giornalista spiega:”Questo cielo mi pulisce le meningi. Non immagina il tormento di recitare in una lingua che non era la mia…Mi conforta sapere che il pubblico abbia compreso lo sforzo.” “Una civetteria”, scrive la Fallaci, “per ricordare a se stesso che ha “spopolato”. L’ho visto la primavera scorsa a Parigi e la città era ai suoi piedi.” Sembra la Parigi dei tempi andati, degli anni venti, la “Festa mobile” di Hemingway. Anche lo scrittore della “generazione perduta” è tra le amicizie di Raffaele Vallone, nato a Tropea, nello splendore della costa calabrese, classe 1916.

Si traferisce presto a Torino, dove si laurea in filosofia e giurisprudenza. Leone Ginzburg e Giulio Einaudi tra i suoi maestri. E lui intanto gioca a calcio, con un Torino non ancora grande ma capace di vincere una Coppa Italia. Dopo l’8 settembre si unisce alla Resistenza, nelle Brigate di Giustizia e Libertà. Finita la guerra, il giornalismo, giovanissimo responsabile della pagina culturale de “L’Unita”. Hemingway è tra i collaboratori. E poi gli incontri con Pavese: “Veniva spesso a trovarmi, andavamo a pranzo a Porta Palazzo, alle Tre Galline. Mangiavamo in silenzio: lui non parlava molto, io neppure. Credo gli piacessi per quello: assecondavo il suo silenzio.” A Michele Garrì, di “Paese sera”, che a metà anni ottanta lo va a trovare a Tropea, dice: “E’ vero, sono un solitario. D’altronde i miei amici più cari sono tutti morti: Malaparte, Gatto, Pavese e per ultimo Davide Lajolo, il caro “Ulisse” assieme a cui ho combattuto durante la Resistenza e lavorato a lungo come giornalista. E’ una perdita non solo nazionale, ma anche personale. Per non parlare di quella di Enrico Berlinguer le cui doti morali soltanto il presidente Pertini riesce ad eguagliare.” E ancora: “Andai all’Unità nel ’46 introdotto da Teo Desio.

Con Davide Lajolo nacque subito una sincera amicizia. Abbiamo dato origine ad una delle più belle terze pagine. Si lavorava anche diciotto ore al giorno. La più grande emozione fu quando mi diede in consegna gli originali dei Quaderni di Gramsci. Aveva un modo di lavorare molto strano: su quello che voleva cancellare tracciava una linea sottilissima e trasparente.” E il cinema? Tutto comincia da un incontro con Carlo Lizzani e Giuseppe De Santis, interessati ad un’inchiesta del giornalista Raffaele Vallone sulle mondine di Vercelli. De Santis le aveva viste e sentite quelle donne lavoratrici, alla stazione di Torino, di ritorno da Parigi, e si era incuriosito. Poi la chiacchierata a “L’Unità” e l’interesse diventa un soggetto cinematografico.

in “Riso Amaro”
Nasce così “Riso amaro”, 1949, capolavoro del neorealismo. Protagonisti la stupenda Silvana Mangano, Vittorio Gassman e lo stesso Vallone. De Santis si convince dopo averlo sentito recitare gli amati versi di Garcia Lorca. E così comincia una carriera di grande prestigio, europea e Hollywoodiana. De Santis lo dirige ancora nel film “Non c’è pace tra gli ulivi”. Sul set de “Il cammino della speranza” di Pietro Germi incontra la bella e brava Elena Varzi, che diventa sua moglie. I due sono tra i protagonisti di “Cristo proibito” di Curzio Malaparte. E ancora regie di Lattuada, Zampa, John Huston, De Sica, Risi, Francis Ford Coppola. Spiccano “Teresa Raquin” di Marcel Carné, accanto a Simon Signoret e, dopo il successo a teatro, “Uno sguardo dal ponte” diventa anche un film diretto da Sidney Lumet.

Tanto cinema, che ha sempre amato, ma il palcoscenico gli ha dato soddisfazioni particolari. Anche come regista di classici, autori d’avanguardia e di opere liriche. In tivù, intervistato da Luciano Rispoli, ha detto: “Il teatro è una di quelle malattie che, quando penetrano nell’organismo, non lo lasciano più.” Anch’io lo ricordo entusiasta e concentrato per “Luci di Bohème”, a Cagliari. Arrivai in leggero ritardo per l’intervista e lui mi rimproverò bonariamente. Poi ho letto che teneva molto alla puntualità. Lo richiedeva la sua vita piena e spesso frenetica: cinema, teatro, giornalismo, passione politica. Un uomo con una marcia in più, un profilo di cultura e carattere, che sarà presto raccontato in un documentario. Raf Vallone è morto il 31 ottobre 2002. Sua moglie Elena Varzi è scomparsa il primo settembre 2014. Una storia durata più di cinquant’anni. Hanno avuto tre figli: Eleonora e i gemelli Saverio e Arabella, che a Roma ha una scuola di canto e suono-terapia.

Al telefono Arabella ricorda:”Mio padre, un intellettuale prestato al cinema e al teatro. Ha incarnato, con i suoi personaggi, soprattutto nel periodo del neorealismo, i valori di libertà, onestà, giustizia, antifascismo. Mi manca, mi mancano le sue poesie recitate al mattino. Per allenare la memoria, spiegava. In realtà era pura bellezza, come un mantra. Ho sempre avuto grande affinità con mio padre. Mi diceva: sei un tesoro non ancora saccheggiato.” Forse è questo il segreto di un artista come Raf Vallone: la capacità di riconoscere il talento e di alimentarlo con l’intelligenza del carattere.
Ho avuto la fortuna di conoscerlo a Cagliari e apprezzarlo sia come attore ma forse più come grande uomo