Maggio 28, 2023

In ricordo di Salvatore Mannironi, a 50 anni dalla sua morte._di Antonio Maria Masia

Brani tratti da l libro “Il Gremio” di Antonio Maria Masia – edizione Nemapress, 2015.

Era il Ministro della Marina Mercantile in carica, era il quinto presidente del Gremio in carica!   

Salvatore Mannironi

Subito dopo la dolorosa e sentita scomparsa di Cesare Ordioni (Cagliari 1889 – Roma 1961) il Sen On. Salvatore Mannironi, ancora presidente de “La Tribuna”, viene acclamato, dall’Assemblea e dal Consiglio Direttivo, presidente del Gremio, venendo così a cumulare le due cariche. “La Tribuna” di lì a poco conclude il suo ciclo, con manifesto dispiacere di Pasquale Marica (il fondatore del Gremio, Sanluri 1886- Roma 1979) che avendola “inventata” vorrebbe farla continuare, preoccupato che la qualità degli eventi da organizzare possa scadere.

Non sarà così. Perché la presidenza Mannironi sarà pienamente e continuamente all’altezza, ed anzi contribuirà a dare al Gremio maggiore visibilità ed importanza nell’ambito della vita culturale capitolina, con conseguenti ricadute positive in Sardegna.

Salvatore Mannironi (Nuoro 10.12.1901 – Nuoro 6.4.1971) di fatto, mantiene per 10 anni la presidenza del Gremio fino al 6.4.1971, giorno della sua scomparsa. Laureato in giurisprudenza, esercita con successo, nella sua città, la professione di avvocato. Nel 1919 entra nel Partito Popolare Italiano con vari incarichi: delegato regionale della Gioventù Cattolica sarda, poi Presidente degli uomini cattolici ed infine Direttore de “L’Avvenire di Nuoro”.

Irriducibile e fiero oppositore del regime fascista, viene indicato come “il capo dell’Azione Cattolica in Sardegna”, nel 1943 arrestato dalla polizia fascista insieme al fratello Cosimo, è detenuto nelle carceri di Cagliari, Oristano e Roma, ed infine nel campo di concentramento di Isernia, dal quale riesce a fuggire in occasione di un duro bombardamento. Assume nel dopoguerra l’incarico di segretario provinciale della Democrazia Cristiana, poi viene eletto consigliere e delegato regionale.  Nel 1945 fa parte della Consulta Nazionale come esponente di spicco della Democrazia Cristiana e viene eletto deputato all’Assemblea Costituente nel 1946. Membro della Commissione dei 75 per la redazione della Costituzione, fortemente impegnato nella sottocommissione sull’ordinamento costituzionale dello Stato, nella quale si distingue come valido giurista. Contribuisce alla scrittura dello Statuto della Regione Sardegna. Per diversi anni presidente della Camera di Commercio e consigliere comunale di Nuoro. Sempre eletto alla Camera dal 1948 al 1968 con diversi e importanti incarichi governativi (Sottosegretario ai trasporti, alle Finanze, all’Agricoltura, al Lavoro e Previdenza Sociale, al dicastero di Grazia e Giustizia), eletto Senatore nel 1968 e dopo vari compiti governativi viene nominato Ministro della Marina Mercantile nel governo Colombo: muore mentre è ancora in carica.

Era anche in carica come presidente del Gremio! Tra le cose che riguardano questo nostro indimenticabile presidente mi piace sottolineare che è stato l’autore di bellissime, dolcissime e commoventi lettere scritte dal 1923 al 1929 e poi dal carcere nel 1943, al grande amore della sua vita, Stefania Satta, di Ploaghe, nipote del famoso canonico Giovanni Spano,   che diventerà sua moglie. Lettere che la figlia, Grazia, anche lei successivamente presidente del Gremio, ha raccolto e curato, insieme a Mario Scotti, nel 1990 in un prezioso libro: “Lettere a Fannìa”.

Dalla prima lettera leggo, con curiosità e ammirazione, che Salvatore Mannironi dice di se: “Generalmente il mio pseudonimo di battaglia è Ospitone”. Interessante e per me attraente la scelta che lo identifica con il famoso re barbaricino Ospitone (seconda metà del VI secolo), cristiano e protagonista nel 594, dopo 4 anni di durissime battaglie, della firma di pace con i Bizantini sotto il pontificato di Papa Gregorio Magno. Ricordiamo, avendola già citata in precedenza, che la signora Stefania Satta Mannironi è stata per molti anni, ancor prima della presidenza del marito, la presidente del Comitato Donne del Gremio e principale organizzatrice della “Befana del Gremio” ai bambini sardi indigenti di Roma.

Salvatore Mannironi è, senza dubbio alcuno, da considerare una delle colonne più importanti e prestigiose che il Gremio abbia mai avuto, la cui vita professionale e politica, come brevemente accennato, è stata segnata da traguardi comunali, regionali e nazionali di grande livello e rilevanza. Livello e prestigio che ha saputo trasmettere al Gremio, di cui è stato sempre orgoglioso e convinto esponente al massimo grado, prima come presidente de “La tribuna” e poi come responsabile numero uno.

Sul punto è curioso rilevare, e un poco me ne dolgo, che nelle biografie ufficiali di Salvatore Mannironi, quasi mai appare il riferimento alla sua presidenza del Gremio. Come se questo incarico, da lui svolto con dedizione ed elevato impegno, anche dal punto di vista dell’esposizione personale, fosse da considerare di seconda categoria, e quindi, forse, non degno di evidenziazione. Così pure si rileva analoga omissione quando si scorrono le biografie di Mariano Pintus, di Mario Segni e di Giovanni Nonne, cioè dei presidenti che sono stati anche noti personaggi politici.

Avvocato nel foro di Nuoro di riconosciuta bravura, capacità e grande umanità, quando passa alla politica lo fa con passione e spirito di servizio, raccogliendo consenso e partecipazione. Da Roma, e non solo attraverso il Gremio, ha sempre avuto uno sguardo attento e “fraterno” verso la sua Isola, impegnandosi a favorirne sviluppo e crescita culturale, sociale, economica, meritandosi ampi riconoscimenti in tal senso. lo cita ad esempio, ma di esempi se ne potrebbero fare tanti, il presidente della Giunta regionale Efisio Corrias, per ringraziarlo della collaborazione, quando presenta, al Gremio, il Piano di Rinascita nel gennaio del 1961.

E a proposito e conferma della sua sensibilità cattolica e vicinanza al prossimo, riporto alcune espressioni contenute nell’appendice del libro “Lettere a Fannìa” e segnatamente nel breve racconto che lui fa dell’incontro in carcere con un suo assistito, il bandito di Bitti Antonio Pintore, classificato tra i peggiori delinquenti dell’epoca.

 Salvatore Mannironi lo va a visitare il giorno prima della esecuzione della pena di morte comminatagli per una serie di delitti, fra i quali il rapimento e la scomparsa, nel luglio del 1933, della piccola di 6 anni, Maria Molotzu, figlia del podestà di Bono. Dopo una notte insonne, così descrive il suo travaglio umano morale e spirituale e i suoi interrogativi sulla barbarie della pena capitale, per lui inaccettabile, come quasi da lungimirante antesignano di “Nessuno tocchi Caino”: “I fatti di cui è stato ritenuto colpevole sono tali e tanti che non può trovare attenuante alcuna. Qualunque pena sarebbe, dunque, adeguata. Ma la somma delle pene ha un limite insuperabile nel rispetto della vita perché nessun altro uomo avrebbe il diritto di toglierla e perché toglierla non è necessario né utile ad alcuno”

Quando morì unanime fu lo sconcerto e il dolore non solo nei famigliari ma in tutti coloro che sardi e non sardi avevano avuto la fortuna di conoscerlo e apprezzarlo come uomo e come politico.

Fra le numerose testimonianze, ne cito due che evidenziano bene il rapporto Gremio/Mannironi e le grandi qualità dell’uomo.

La prima. Su “Sardegna Informazioni”, l’8 aprile 1971, ne fa questo bello e toccante ricordo, il suo direttore editoriale, Pietro Ghiani Moi: “Salvatore Mannironi, Senatore del Repubblica, Ministro della Marina Mercantile e Presidente del Gremio dei Sardi in Roma, NON E’PIU’!” Non aveva ancora compiuto i 70 anni e, sebbene avesse in questi ultimi tempi, qualche segno di stanchezza fisica, era rimasto sulla breccia, assolvendo con passione, competenza e ferrea volontà, i gravosi impegni del suo Alto Ufficio e di altre numerose incombenze: era un valoroso avvocato, uno studioso coscienzioso, un politico moderato e nello stesso tempo apertissimo ad ogni vero progresso sociale, un Amministratore di cristallina onestà, un Uomo di Governo di grande esperienza ed equilibrio, ma soprattutto un nuorese un sardo di pura razza, di grande cuore, di slancio genuino, al servizio della sua terra e della sua gente, ma anche un italiano puro al sevizio della Nazione di cui, in questo venticinquennio post-bellico – in Parlamento e al Governo – aveva saputo interpretare e difendere i veri interessi: ben sei dicasteri (Trasporti, Agricoltura, Lavoro, Finanze, Giustizia e Marina Mercantile) lo ebbero intelligente Sottosegretario di Stato, per giungere, infine, a Ministro della Marina Mercantile. Salvatore Mannironi era anche – da circa un decennio – l’indiscusso ed amato Presidente dell’Associazione dei Sardi in Roma – IL GREMIO – e ciò era per Lui un impegno di più, ma anche una specie di Oasi in cui, lasciando i panni dell’ufficialità da parte, amava rifugiarsi e ove si sentiva soltanto sardo tra i sardi e amico fra gli amici, schivo di riverenze e di protocolli, sempre con animo fraterno e cordiale. Salvatore Mannironi (Bobore, per gli amici e gli intimi), ci ha dunque lasciati quasi d’improvviso, increduli e costernati insieme: e mentre da vero e aperto credente quale Egli era, riceverà ora il divino premio dei Giusti, noi tutti – sardi, amici ed estimatori – ne piangiamo la perdita col proposito però di onorarne la Memoria seguendo il Suo esempio di probità, di operosità e di fede, per il migliore avvenire del Sodalizio a Lui tanto caro e della Sardegna tutta. Alla vedova Donna Stefania – che del marito fu sempre non soltanto la devota compagna ma anche la più fervida sostenitrice – ai figli, ai fratelli e parenti tutti, le nostre rinnovate vivissime condoglianze, con l’assicurazione che il ricordo dell’indimenticabile Estinto rimarrà in noi tutti imperituro. (p.g.m.)”.

La seconda. Questa profonda e sentita “onoranza funebre” del nostro fondatore Pasquale Marica, pubblicata su la Nuova Sardegna – Venerdì 7 maggio 1971:

MANNIRONI:  Uomo “pulito”

I meriti di Mannironi parlamentare sono stati, a buon diritto, ricordati di chi ha dovuto salutarne l’improvvisa fine. La cronaca ne ha parlato a lungo, ma questa cronaca “obbligata” non basta a chi di Mannironi conobbe, oltre che la perizia del politico, le qualità più profondamente umane del marito, del padre, dell’amico, del consigliere.

Per rendergli giustizia bisogna parlare anche di queste sue qualità.

Perché furono proprio queste a dare carattere alla sua attività di parlamentare: la sua integrità non fu che la proiezione, nella politica, delle sue qualità di uomo integro. Altri daranno di ciò più illustri testimonianze. A me basta ricordarlo nel campo dei piccoli interessi per spiegare la ragione della profonda e veramente sentita tristezza che la sua scomparsa ha lasciato nel cuore di chi lo conobbe.

Gli ero ormai vicino da oltre venti anni. Forse non è del tutto inutile il ricordo del nostro primo incontro. Verso il 1955 “il Gremio” si stava dissolvendo; per dar tempo al tempo ci riunimmo in pochi nell’intento di tenerlo in vita attraverso una più o meno improvvisata “Tribuna” che aveva lo scopo di richiamare con qualche clamore i Sardi della Capitale con alcune manifestazioni artistiche e culturali di un certo rilievo. L’artificio riuscì per il prestigio del nome di Mannironi.

Fu a lui infatti che offrimmo la carica di presidente della “Tribuna” del Gremio; andammo a trovarlo nel suo gabinetto di sottosegretario di Stato. Gli esponemmo la precarietà di vita dell’Associazione; gli chiedemmo di aiutarci a salvarla. Una specie di consulto in letto di morte. Non era una offerta allettante e non avevamo molte speranze che egli si sentisse lusingato dal fatto che avevamo pensato a lui soltanto in extremis. Invece Mannironi accettò con semplicità. Non chiese nulla, sui motivi della nostra scelta: non promise nulla. Gli bastò il nostro atto di fede in lui, per non esimersi dalla sicura “noia” che doveva accollarsi in aggiunta alla sua già pesante derrata. Questo suo modo di accettazione, semplice e spontaneo, mi colpì.

Abituato, per ragioni di mestiere, a trattare coi i mammasantissima della politica che concedono di stare alla loro pari solo per la durata dell’intervista, per risalire subito dopo, pettoruti sul podio di quella pageantry (ndr: esibizionismo) che sta in luogo del merito, fui lietamente sorpreso di trovare nel sottosegretario di Stato Mannironi la semplice premurosità dell’amico e, quando ci congedammo, non potei trattenermi dal dargli una pacca sulle robuste spalle e dal dirgli “Mi è simpatico lei, Mannironi!” Una simile familiarità avrebbe fatto rizzare la cresta di altri, non la sua. Mi strinse la mano sorridente e mi disse: “Ne sono contento. Andremo d’accordo”

Fu questo l’inizio, poco protocollare, di una lunga amicizia che solo la morte ha troncato; ma fu anche per me il segno della buona scelta fatta per il Gremio, che fu da lui e da Cesarino Ordioni (ndr: precedente presidente del Gremio, anche lui “scomparso in servizio” il 28-4-1961)  salvato dal naufragio. Che la scelta fosse buona lo confermano i fatti.

 Ormai il Gremio senza Mannironi pareva cosa senza senso. Nessuno in quasi venti anni pensò mai di sostituirlo. Il Gremio aveva trovato il suo uomo e se lo teneva. Se lo tenne sino alla sua morte.

Potrà sembrare poco rilevante questo episodio, eppure per noi “sardi del continente”, per farci dimenticare che siamo gli esuli della nostalgia, ha una naturale importanza.

Non dispiaccia ai miei conterranei, perciò, se mi attardo ancora a parlare delle nostre piccole cose, che non solo non diminuiscono la statura di Mannironi, ma la esaltano perché valgono più di tutte le commemorazioni ufficiali, a scoprire, nel politico, l’uomo.

 Mannironi era barbaricino. Per qualcuno di noi ciò era causa di qualche perplessità. Con tutta la letteratura sulla “razza a parte”, col Supramonte celebre come una bolgia dantesca, con le amene storielle del codice della montagna fuor del codice comune, con la paccottiglia filosofica “condizionatore” dei rapinatori di donne e di bambini; essere barbaricini a noi – come a tanti altri italiani – sembrava una difficile parte da sostenere; tale, in ogni modo, da far passare – a chi portava il peso di quella condizione geografica – una specie di esame per poterlo, senza riesame, promuovere ad uomo onesto. Non c’è da sorridere di questi stati d’animo che, in chi non è sardo, fanno le veci della comparsa conclusionale.

 Io, in verità, a proposito di barbaricini, ho fatto sempre esperienze felici ed illuminanti. Ho sempre avuto molti amici barbaricini e li ho tutti promossi al primo appello con 10 e lode. Non solo, li ho promossi ma, ad un certo momento, mi parve di essere spoglio delle migliori qualità sarde solo perché nato nella solatia Trexenta (ndr: Sanluri) e non in Barbagia. E mi piacerebbe essere barbaricino onorario. Mannironi del barbaricino aveva solo i pregi migliori: nè starò qui a ricordare i molti episodi che confermano il suo profondo senso di giustizia, il suo disinteresse, il suo affettuoso cameratismo che faceva dimenticare la sua carica rappresentativa, per lasciare via libera all’espansione amicale.

Era anche un uomo di vasta cultura umanistica (fu buon collega in giornalismo). Amava il giornale; appena gli si offriva l’opportunità e la possibilità scriveva volentieri su cose non strettamente polemiche. E scriveva bene, con stile piano, disinvolto e preciso. Era un critico. A me che gli offrii il volume su “Antonio Segni” e gli chiesi un giudizio rispose con poche parole, dopo averlo letto: “E’ il libro di un giornalista”. Non lo presi come giudizio favorevole, perché non lo era; ma lo accettai perché era giusto; il più giusto fra i vari e più compiacenti giudizi che ebbi da altri.

 Potrei continuare a ricordare l’uomo in tanti altri suoi atteggiamenti ma per un uomo che dopo venticinque anni di politica è morto “pulito” mi pare superfluo.

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