Storie cagliaritane/I vecchi pescatori, anime della Marina_di Attilio Gatto

Era nato a Cagliari, ma si era trasferito a Milano da una vita il professor Elio Spano, 70 anni a un tiro di schioppo, pensionato ma sempre venerato dai suoi allievi del liceo classico Cesare Beccaria, generazioni, e coccolato dagli amici, adoranti. Elio aveva paura di abbandonarsi tranquillamente – pacificamente – all’esistenza, alle piccole gioie quotidiane, alle grandi conquiste della maturità. Era anche preoccupato per quei tre centimetri persi a causa dello schiacciamento delle vertebre lombari. Da un metro e 78 – praticamente uno e 80 – a uno e 75. “Che pericolosa decadenza!”, esclamava assai spesso il professor Spano, con toni ambigui, indecifrabili.
Triste e canzonatorio, maschera nata dalla cultura familiare, intreccio tra Ziu Paddori e Felice Sciosciammocca, ponte tra Sardegna e Campania. Quasi marziano a Milano, si era lasciato andare, aveva smesso di uscire e si era barricato in casa il professor Spano. Riceveva solo il suo vecchio amico Efisio Pisano, compagno di scuola alle elementari, alle medie e al liceo. Efisio gli era affezionato e cercava di scuoterlo con ragionamenti da avvocato puntiglioso, calmo e serafico, sempre disponibile, solido come roccia.
Elio lo accoglieva calorosamente e si entusiasmava ricordando la Cagliari dei tempi andati, ma all’improvviso ammutoliva, si accasciava. Un mucchio di ossa raccolte nella poltrona dello studio, destrutturata come la traiettoria della vita. Chi l’avrebbe mai detto che quell’uomo grigio e riluttante nascondeva riflessi di luce propria! Erano gli anni ottanta del novecento. Elio viaggiava tra le trenta e quaranta primavere. Non era quel che si dice un tipo espansivo, estroverso, incline all’amicizia a tutti i costi. Ma piaceva. Piaceva proprio per la sua riservatezza, per la disponibilità non affettata, per i rapporti umani coltivati senza ipocrisia, per il tratto gentile della figura e della personalità.

Piaceva ad amici, conoscenti e sconosciuti, che si sentivano gratificati dalla compagnia composta e dall’eloquio parsimonioso. Piaceva anche alle donne, ammaliate dalla timidezza, incapricciate della fossetta sul mento alla Kirk Douglas e dell’eleganza non ostentata, misurata, sobria, levigata come la frase di un grande scrittore: calzini in “nuance” con la camicia, giacche pastello a spezzare i jeans, una collezione di cappelli a larghe tese. E poi quei baffetti appena accennati, un sottile ricamo nero a valorizzare un volto scavato, pallido, ma con labbra carnose e sguardo intenso, sinonimo d’intelligenza senza enfasi, senza sovrastrutture. Insomma, senza autocompiacimento. Era umile e curioso Elio. Non si dava arie, pur avendo raggiunto traguardi non trascurabili, mete lontane mille miglia dall’impazzimento di quei tempi, dalla piaggeria di certa politica e dai suoi riti inquietanti, dalle folle plaudenti, dai folli che ci hanno lasciato in eredità un immenso, mostruoso, debito pubblico.
Eppure si sentiva tutt’altro che isolato. Da diversi anni – da quand’era ragazzo e bussò ben accolto alla porta di una sezione del centro storico – era iscritto al partito comunista. Una scelta di vita. Suo nonno materno era stato sardista e a lui piaceva immaginarlo tra quei pescatori che salutarono Emilio Lussu mentre lasciava il porto di Cagliari per approdare al confino di Lipari, dopo l’uccisione del fascista Porrà. La militanza a sinistra, intessuta d’identità e giustizia sociale, era come una piazza ariosa in un’Italia nata dalla Resistenza, che però viveva tempi bui. Oscure trame e loschi personaggi sullo sfondo di un Paese inquieto.
Lontana da Roma e dai suoi traffici, sferzata dal maestrale, Cagliari si compiaceva nel ruolo privilegiato di osservatorio critico di una società spavalda, arrembante. Lì, dalle mura di Castello, dalla prospettiva dei bastioni e delle torri pisane, i minuti, le ore, i giorni scorrevano senza ostacoli eccessivamente ardui. Questo almeno era quello che tutti pensavano, il senso comune, cui Elio non aveva alcuna ragione di sottrarsi, di mettere in dubbio la fortuna che aveva avuto a nascere nel quartiere Marina, da una famiglia umile ma fiera. Una famiglia di pescatori che discendevano da una stirpe proveniente dalla costiera amalfitana.

Quante volte gli era capitato di sorprendersi a pensare a quel bisnonno che, alla fine dell’Ottocento, aveva lasciato le tinte tenui della sua giovinezza per imbarcarsi con sposa e prole verso l’isola dai colori violenti, verso l’ignoto? Tante e sempre con nuovi particolari, con la forza dell’immaginazione, con la capacità insospettata di scrivere e riscrivere una storia che in realtà non conosceva, ma a cui si sentiva legato da una misteriosa fitta rete di corrispondenze, da solide radici che lo inchiodavano alla terra. Era orgoglioso della sua eredità familiare, di quella complessa genealogia che lo vedeva al centro di più culture, isola e penisola, cittadino d’Italia, d’Europa e del mondo, senza paura di estendere il suo sguardo oltre le barriere, oltre le razze, oltre i preconcetti assurdi di quei figuri che non vedevano più in là delle loro quattro mura per difendere chissà quale presunta purezza, chissà quale primato, in nome di valori finti, aridi e senza futuro.
No, non scendeva a compromessi Elio, non si lasciava sedurre dalle sirene che ripetevano sempre lo stesso spartito. Ma, nonostante il sottofondo di malinconia, aveva voglia di sorridere al mondo. E così furono amori e cene e viaggi. Leggeva i quaderni di Gramsci e le memorie di Lussu, tra piacevolezze ed ansia di socialismo nella libertà. Amava l’arte, i musei, mangiava crostacei in dolce compagnia, e adorava passeggiare nelle stradine del centro storico dove i camerieri presentavano le pietanze in piccoli locali accoglienti, puliti, con tavoli dalle tovaglie a quadretti. Lì servivano succulente zuppe di pesce con molto aglio e nessuno si preoccupava dell’alito perché a Cagliari prevaleva sempre Il profumo dei fiori di jacaranda.
Un profumo ch’era particolarmente intenso nel piccolo teatro in cui una volta Elio fu chiamato sul palcoscenico da un mimo dipinto di bianco che gli dimostrò come fosse possibile comunicare senza dire una parola. Fascino del silenzio, del linguaggio del corpo, di costumi e scenografie. Mistero della vita, della morte. Elio era attratto dai sepolcri di Bonaria. Nell’antico cimitero c’erano i suoi avi, i suoi nonni pescatori che – ne era certo – di notte lasciavano le tombe per gettare le reti al largo del golfo di Cagliari. I vaporetti raggiungevano la “spiaggia quasi africana” in cui tutti si rifugiavano lasciandosi alle spalle l’afa delle case soffocanti. Era un grande spettacolo luccicante che rendeva gradevole l’esistenza, Elio, se non felice, era sazio.
Ma la strada a volte si fa tortuosa, in salita. A Milano si rinchiuse nella sua solitudine. Seduto sulla poltrona destrutturata, il mucchietto di ossa guardava il mondo da una prospettiva obliqua. Ogni tanto pensava a quel teatrino che profumava di jacaranda, poi fissava un punto nel vuoto e, immobile, cercava di srotolare il filo dei suoi ricordi. “Inutile, tutto inutile!”, ripeteva la voce ambigua, indecifrabile. Poi un giorno, come d’incanto, afferrò una frase, a mezz’aria. Fu allora che l’immaginazione, come una canzone, “nel blu dipinto di blu”, camminò con una forza che Elio non credeva di possedere. Improvvisamente si ricordò che aveva scritto un testo pensato per una voce fuori dal coro, cantilenante, sulle orme di Carmelo Bene.

L’aveva fatta leggere anche al grande attore rivoluzionario, una sera a Roma, teatro Argentina. Bene ne fu entusiasta, voleva portarla a Parigi, poi non se ne fece niente. E tutto finì lì. Ma quel testo era da qualche parte, non l’aveva buttato. Centoventi fogli ingialliti. Li trovò in un cassetto. Li trascrisse nel tablet e inviò l’allegato con la mail. Il resto è storia d’oggi. Elio vive in un nell’appartamento di Piazza Jenne, scrive per il teatro seduto ad un tavolo – sempre lo stesso – sotto i portici di via Roma e beve vino bianco. Vede tutti i giorni “la spiaggia quasi africana”. Ed ha un progetto, una riduzione per le scene del “Sangue d’Europa”, l’opera civile di Giaime Pintor, con l’ultima lettera al fratello Luigi, che chiama l’intellettuale all’impegno. Musiche di Gaber che canta: “Libertà è partecipazione”. Spazio scenico il cimitero di Bonaria, trasformato in café chantant, alla maniera dei futuristi. Protagonisti loro, i vecchi pescatori di Cagliari, anime della Marina che non moriranno mai.