Antonello Salis, l’apparizione del Matto n° 0_di Maggie S. Lorelli

Una perla lucente nell’aridità del deserto, via dei Matti n. 0, il programma televisivo appena conclusosi condotto dall’attrice Valentina Cenni e dal musicista Stefano Bollani, coppia nella vita e nell’arte. Nel palinsesto di una tv generalista sempre più asfittica e stantìa, di cui l’unica cosa che si rinnova è il canone, il format ci ha fornito inaspettatamente un po’ d’ossigeno. Nato inizialmente come «tappabuchi» per coprire la fascia oraria pre-serale, il programma si è rivelato uno strepitoso successo, a dimostrazione che il pubblico di massa non è quel pecorone imbonito che si vuole far credere.
In uno spaccato domestico in cui campeggia un pianoforte a coda, ubicato nell’indirizzo di fantasia che richiama la filastrocca musicata da Vinícius de Moraes, nota nella versione italiana di Sergio Endrigo, i padroni di casa parlano di musica e dintorni alternando i recitativi dell’attrice con degli intermezzi musicali del pianista attorno a temi ogni sera diversi. E come ogni salotto buono che si rispetti, accoglie, in intimità conviviale, degli ospiti che raccontano amabilmente le loro storie musicali, senza distinzioni di genere, finché i due coniugi non rimangono da soli a chiudere la serata con un ultimo intimo duetto prima di ritirarsi nelle loro stanze. Artisti del calibro di De Gregori, Bennato, Capossela, Zalone, Vanoni Baglioni, Finardi sono passati di lì per farsi una bevuta insieme di un distillato di talento.

Vento di Sardegna è soffiato nella puntata che ha chiuso il fortunato ciclo di trasmissioni, dedicata al tema dei canti popolari di lavoro e di lotta, di cui si trova ampia documentazione nelle incisioni dei Dischi del Sole e dei Dischi dello Zodiaco, le case discografiche attive negli anni ’60 e ’70 votate alla canzone impegnata e militante italiana. La seconda, sottoetichetta della Vedette Records, ha avuto come direttore artistico Antonio Virgilio Savona, membro del Quartetto Cetra, che le ha conferito le caratteristiche di una collana popolare-politica, che ha pubblicato i mitici dischi dei gruppi appartenenti alla corrente della Nueva Canción Chilena, come gli Inti-Illimani o i Quilapayún, oltre a raccolte di canti della resistenza italiana e europea, canti rivoluzionari e canzoni popolari.
«La musica smuove le masse – recita Valentina Cenni – e cantare in coro smuove addirittura le coscienze». Ed ecco che i due artisti intonano i versi pacifisti di «Blowin’ in the Wind» del menestrello Dylan, per proseguire con l’inno immortale dei prigionieri ebrei in Babilonia contenuto nel Nabucco di Verdi. «C’è oggi una musica in grado oggi di smuovere le masse?», si chiede l’attrice… Dapprima Bollani ci scherza sopra, accennando al piano un noto jingle telefonico, per poi eseguire, con il guizzo del genio poliedrico in grado di passare con irriverente nonchalance da un registro all’altro, la Danza Ungherese numero 5 di Brahms accompagnata dal corpo sonoro della sua altrettanto versatile consorte. La carrellata dei canti di comunità continua con la canzone popolare «La lega (Sebben che siamo donne)». Ed è a questo punto che compare, imbracciando la sua fisarmonica, Antonello Salis.

Esilarante il duetto dei due jazzisti, che trasfigura la melodia popolare sull’impronta di «The Good Life» di Ornette Coleman. Salis racconta dei suoi esordi nella musica, di quando imitava il suono delle campane percuotendo delle bombole di gas vuote, a seguire un impulso ritmico e sonoro incontenibile sin dalla più tenera età. Si celebra il primato della fisarmonica, regina della musica folk in tutto il mondo, a partire dalla festosità delle sagre paesane, in cui il virtuoso si è fatto le ossa, non disdegnando il liscio e le canzoni popolari. La fisarmonica giocattolo «8 bassi» gliela regalano i nonni che non ha neanche sei anni, finché la pratica dello strumento non diventa la sua «bella malattia». Il musicista sardo ricorda ancora di quando, agli inizi degli anni ’60, viene rapito dagli echi di rock e swing che giungono dall’America, comprese le canzoni di Paul Anka e Neil Sedaka, che hanno su di lui un grande appeal. Nella sua ricerca musicale incessante, il jazz arriva più tardi, ma non gli si scrolla più di dosso, facendo di lui un originale innovatore e creatore di tecniche espressive che lo hanno incoronato come uno dei più grandi solisti del jazz italiano, acclamato nel panorama mondiale.
Nel ’67, mentre fa il cameriere in un ristorante di Portoscuso, entra a far parte dei Black Strings, costituitisi a Sestu, dopo di che, insieme al bassista e cantante del gruppo, Antonio Lecis, in arte Tony Smith, fonda i Los Sardos, prima di approdare nei Nati Stanchi, di stanza ad Alghero. Seguono altre militanze musicali, come quella nei Barritas, in onore alla tipica berrita del leader Benito Urgu. Dopo un breve periodo nei Salis ‘n Salis, forma nel 1973, sempre ad Alghero, la band musicale dei Cadmo, insieme al bassista Riccardo Lay e al batterista Mario Paliano, con cui si trasferisce a Roma due anni dopo per incidere i due 33 giri «Boomerang» e «Flying over Ortobene Mount on July Seventy-Seven». Quando ai Cadmo si uniscono il sassofonista Sandro Satta e il trombonista Danilo Terenzi, nascono i G.R.A. Di lì a poco le infinite collaborazioni con artisti italiani e stranieri che non si arresteranno più, che lo vedono impegnato con nomi del calibro di Lester Bowie, Don Moye, Roscoe Mitchell, Massimo Urbani, Enrico Rava, Evan Parker, Javier Girotto, Anouar Brahem, Michel Portal, Pat Metheny e tanti altri, senza dimenticare il nostro Paolo Fresu, con cui nel 1995 fonda, insieme a Furio di Castri, il trio P.A.F. Con un altro grande nome sardo, il polistrumentista Gavino Murgia, insieme al chitarrista Paolo Angeli e al batterista afroamericano Hamid Drake, dà vita al gruppo Giornale di Bordo.

Bollani e Salis invece si conoscono dai tempi dell’Orchestra del Titanic, che più che un disco è una riunione tra amici – Salis alla fisarmonica, Lello Pareti al basso, Riccardo Onori alla chitarra e Walter Paoli alla batteria – che si ritrovano a suonare insieme per divertirsi, ma che quando lo fanno hanno il piglio dei cavalli di razza. Di quel disco del ’99, che si direbbe uscito ieri, frutto delle più disparate esperienze musicali di Bollani, fra jazz, rock, pop e immancabili riferimenti alla canzoni italiana tradizionale, i due fanno il brano «Prima o poi io e te faremo l’amore». Fischiettati, scat, grappoli di note, zampate del mantice, ed è subito groove, non solo in senso ritmico, ma è che i due se la godono proprio.
L’abbiamo visto in un’ospitata informale, come si dice in tv, ma ci piacerebbe vederlo ancora, con la sua bandana, il volto brunito di quercia da sughero, e un estro creativo sempre intatto, lui, Antonello Salis, purosangue sardo.