Diario di bordo di un regista indipendente_di GIovanni Coda

Che mi succederà una volta terminato il mio nuovo film?
Negli ultimi dieci anni ho lavorato ad una serie di progetti cinematografici che portano avanti tematiche complesse, dibattute, ma non troppo, prive di attrattive mediatica eccetto l’effetto “titolo sul giornale”. Per i contenuti è un altro discorso. Lavorare sulla violenza di genere innesca inevitabilmente alcune dinamiche che non riesco a comprendere del tutto.
Temi universali, ma non troppo, dibattuti, ma sempre in modo poco approfondito. Non ha alcun fascino la povertà, la perdita dei diritti, finanche la morte quando non filtrata in un’ottica borghese, altolocata, sorretta dalle “luci della ribalta”. La disperazione, il dolore, la ricerca della giustizia non appassionano tutti. Noi artisti ne siamo paladini, e chi ci sorregge, i festival indipendenti in questo caso, è al nostro fianco in questa battaglia che chiede solo giustizia ed un mondo equo in cui tutti si possano sentire (e affermare) parte di esso.
La giustizia sociale come utopia? Forse. Ma i mondi antiutopici, anche per un amante di Blade Runner come me, non li raccontiamo noi, non li scriviamo nelle nostre sceneggiature e non avranno mai la nostra ricerca. Il mondo distopico è già attorno a noi, e non saranno effetti speciali di lusso a renderlo meno crudo e violento, neanche meno reale.

E si va avanti, giorno dopo giorno, violenza dopo violenza, sentenza dopo sentenza. Alla fine si torna al punto di partenza, come per tantissimi altri aspetti della nostra vita e si deve ripartire. Uno spreco di energie. Uno spreco di vite.
Divido il mio set almeno in tre parti su cui distribuisco i pesi in misura uguale lasciando l’uno per cento come margine d’errore. Un approccio così metodico, per uno che lavora con uno stile definito da alcuni critici “profondamente selvaggio”, potrebbe sorprendere. La prima parte del set è dedicata alla composizione, la seconda alla scomposizione e la terza ha il compito di mettere le prime due in perfetto equilibrio. La composizione riguarda gli aspetti teorici che compongono un set, la scomposizione destruttura le regole piegandole alla mia visione cinematografica e la terza mette in equilibrio teoria e pratica filtrandole attraverso i miei stati d’animo.
Vi presento il nuovo film “La sposa nel vento” (ispirato al celebre dipinto di Oskar Kokoschka “The bride of the wind”). Un film totalmente al femminile che narra storie di donne coprendo un arco temporale di circa un secolo. Si parte dall’omicidio della Beata Antonia Mesina (1935) e si arriva ai giorni nostri. Un monologo senza nomi, senza luogo, apparentemente senza tempo.
Stop! Un passo indietro per condividere trent’anni di lavoro con il lettore.
Cosa c’è di più importante, necessario, di una società che basa il proprio essere sulla “giustizia sociale”? Che cosa ha escogitato l’uomo per fare in modo che la società fosse giusta? Non l’economia, non la giurisprudenza, tantomeno il calderone politico mosso dall’opportunità del momento.
Sostengo il potere dell’arte con ogni fibra del mio corpo, ne sostengo i valori morali e l’etica che ne consegue. Inneggio ad una soluzione artistica ai mali del mondo, soprattutto quelli sociali e culturali. Laddove la politica spesso non ha saputo incidere, l’arte potrebbe ancora fare la differenza. Nella fattispecie, ovvero nel mio lavoro di regista cinematografico o narratore sociale, poche volte mi sono imbattuto in realtà con cui ho condiviso tali suggestioni e obiettivi.
Eventi come il Social Justice Film Festival (Seattle) – di cui ho l’onore di far parte in qualità di Advisor e giurato ufficiale dal 2020 – ma anche tutti gli altri festival indipendenti che di giustizia sociale si occupano, andrebbero salutati come la rugiada del mattino, come la linfa che scorrendo silenziosa attraverso il tessuto sociale ne evidenzia le istanze, le mancanze, le brutture. Parafrasando Neil Jordan in “Intervista con il vampiro”, questi festival evidenziano un mondo distratto dalle false luci di un presunto e generalizzato benessere che rende le società inermi, gli uomini impietriti di fronte ad ogni diversità, impauriti di perdere quei piccoli privilegi che altro non sono che la prigione del nostro cuore, della nostra umanità.

Il cinema indipendente e i registi indipendenti negli ultimi venti anni hanno reso all’arte cinematografica di matrice sociale un servizio difficilmente quantificabile in termini di benefici, formazione e stimolo alla soluzione delle molteplici “patologie” che rendono la società instabile, insicura e poco accogliente.
Nel mio lavoro di autore e di regista, nonché in quello di fotografo, ho sempre privilegiato una scelta documentaristica supportata dalla ricerca e dall’analisi dei dati oggettivi scavati nelle varie “vite” che ho narrato.
Come suggerisce il critico cinematografico Adriano Aprà nella sua riflessione sulla necessità di una evoluzione verso una nuova forma cinematografica: “La crisi del cinema tra gli anni ’70, ’80 e ’90 … si scontra con situazioni produttive e distributive ostili”. Questo fino alla nascita di una nuova via produttiva definita “neo sperimentale” che nasce da una crisi creativa del cinema narrativo e di quello cosiddetto del reale.
Così, anche per me, per mio approccio creativo, il cinema narrativo tradizionale e la sua crisi, la sua struttura e la sua istituzionalizzazione non hanno mai avuto presa. L’idea che si potessero esplorare nuove ipotesi narrative, nuove strutture drammaturgiche, nuove opzioni di montaggio, di musica, di suono, di messa in scena, ha sempre avuto il sopravvento in ogni mia produzione.
Reprise!
Che mi succederà una volta terminato il mio nuovo film?
Difficile fare pronostici, certo è che sarà un film difficile da realizzare, così come è stato difficile da concepire e far accettare ai finanziatori. Detto ciò, la miglior prospettiva che possa augurarmi sarà quella di poter proseguire con passione la ricerca su cui si è fondata la mia intera cinematografia (e l’intera collezione fotografica). La cultura riveste un ruolo fondamentale in questa partita contro il tempo che vede l’umanità sempre più scissa tra dominanti e dominati, cittadini integrati e cittadini che non riescono ad ingranare perché privi degli strumenti necessari per poterlo fare. Il cinema è un alleato potente contro ogni genere di discriminazione, ne sono convinto, e cerco ancora di sondare le infinite potenzialità che quest’arte ci offre.