Il replicante russo_di Armando Santarelli

Ha fatto bene l’Ambasciata russa a mostrare le foto dei nostri politici che stringono la mano, supportano, esaltano il dittatore e assassino Vladimir Putin. Perché i politici italiani non hanno mai perso occasione di confermarsi – tutti o quasi – inadeguati ad ascoltare la voce della Storia, della verità, della giustizia, oltre che particolarmente capaci di trascinare in basso un’intera Nazione.
Hanno importanza i pensatori, gli intellettuali, i filosofi, nella vita reale della società? Certo che sì, è questo il loro primo compito, se non vogliono rimanere dei puri teorici, dei predicatori nel deserto. Bene, sui possibili pericoli derivanti dall’ascesa di un uomo come Vladimir Putin si erano pronunciati in modo netto, incredibilmente preveggente, e in tempi non sospetti, alcuni dei più grandi intellettuali europei, due su tutti: il compianto filosofo francese André Glucksmann e lo scrittore polacco Andrzej Stasiuk. Lo avevano fatto più volte sulle pagine di autorevoli organi di informazione europei; oggi, le loro parole tragicamente vere e inascoltate suonano come una vergogna per chi non solo le ha ignorate, ma ha adottato, nei confronti del despota russo, un atteggiamento condiscendente anche quando già mostrava la sua vera natura di spregiudicato autocrate.
André Glucksmann, intellettuale sempre in prima fila nella difesa della libertà e dei diritti umani, ammoniva a diffidare di Vladimir Putin sin dai primi anni in cui questi ricopriva la carica di Presidente della Federazione Russa. Un articolo di Glucksmann sull’Espresso del 31 dicembre 2003 è emblematico per la lucidità, e ripeto, l’assoluta lungimiranza, con cui il filosofo metteva in rilievo i pericoli rappresentati da Putin. Glucksmann esordiva auspicando che la gente occidentale cessasse di «sognare russo»; parimenti, si augurava che i nostri «falsi ingenui e falsi furbi» la smettessero di immaginare una Russia «al servizio delle loro utopie e dei loro calcoli»; stigmatizzava l’assoluzione, da parte di molti governanti europei, del distruttore delle città cecene e massacratore dei loro abitanti; metteva in guardia contro «il rimpiazzante del Cremlino» e la sua «famiglia» di oligarchi e clan mafiosi che saccheggiavano l’economia russa; sgridava l’Occidente sognatore che «incoronava lo zar» pur sapendo dello spregio delle libertà individuali e dello Stato di diritto.
A peggiorare il quadro, scriveva Glucksmann, la realtà del popolo russo, soggetto a quella che Aleksandr Solženicyn chiamava la psicologia della sottomissione: «Una popolazione scervellata da 70 anni di comunismo è impantanata in una speranza paralizzante. Un’élite cresciuta nel totalitarismo rischia di cadere senza ricorso possibile in un nichilismo senza frontiere né tabù». Così concludeva Glucksmann: «Prima gli zar, poi i Soviet, poi Putin: ogni volta che l’Occidente ha scommesso senza riflettere sul miraggio russo è inciampato cadendo in un buco nero».
Meno di un anno dopo, sull’Espresso dell’11 novembre 2004, Andrzej Stasiuk si pronunciava in modo altrettanto chiaro e categorico. Il terreno di discussione era diventato proprio lo Stato ucraino. In occasione del secondo turno delle elezioni presidenziali di quel novembre 2004, il Presidente della Bielorussia Alexandr Lukašenko e lo stesso Vladimir Putin erano scesi a Kiev per sostenere l’elezione a Presidente del filorusso Viktor Janukovyĉ. Intuendo che per Putin l’Ucraina continuava a rappresentare nient’altro che un’appendice della Russia, così Stasiuk valutava le ingerenze del leader russo in quella campagna elettorale: «È interesse di questa ex spia e membro del KGB che nelle elezioni presidenziali in Ucraina vinca un certo Janukovyĉ, un ex criminale condannato due volte da un verdetto di tribunale. Perché così l’Ucraina potrà cominciare una lenta deriva verso l’abbraccio russo e tornare a essere parte dell’Impero rinascente. (…) Sono volati a Kiev sperando che la democrazia ucraina, grazie al loro aiuto, si dimostri un cadavere già sul nascere».
La conclusione di Stasiuk lascia di stucco per l’anticipazione di una realtà che oggi è sotto gli occhi di tutti: «Sarà un impero (quello russo, N.d.A.) del tutto diverso: anacronistico, pieno di complessi, imprevedibile e tormentato dall’ossessione di essere migliore del resto del mondo».
Ehi, amici, ma ci rendiamo conto che la nostra vita è sconvolta e rischia di essere annientata per colpa di un uomo, un singolo uomo? Perché non c’è dubbio che senza la volontà di Putin la guerra, in Ucraina, non sarebbe mai scoppiata. E voglio sgombrare il campo da una questione che è giusto considerare: come la mettiamo con i disordini e i morti nel Donbass dal 2014? Rispondo: è l’unico punto su cui i filoputiniani hanno ragione; il problema andava affrontato seriamente e profondamente a livello diplomatico, ciò che non è successo. Ora, però, dai circa 14.000 morti (di cui, è opportuno specificarlo, alcune migliaia erano soldati o civili ucraini) siamo passati a centinaia di migliaia di morti, ai problemi relativi al gas e al grano, all’allargamento del conflitto, al rischio nucleare. È un modo di risolvere le controversie, questo? Qui c’è una deriva della ragione e di qualsiasi morale se il Patriarca di tutte le Russie invita all’arruolamento, specificando che coloro che moriranno per il proprio Paese «saranno con Dio nel suo regno, nella gloria e nella vita eterna».
La conclusione è una sola: tutti, dico tutti, dobbiamo opporci alle ossessioni di un tiranno e dei suoi accoliti, gente che invece di emendare un terribile errore iniziale, lo aggrava, mandando a morte migliaia di “compatrioti”, di “fratelli”, di persone innocenti che non possono nulla contro decisioni prese da un criminale che forse sta obbedendo a un solo principio, quello del “muoia Sansone con tutti i filistei”.
Foto di copertina: fonte www.kremlin.ru