Le due torri “gemelle”, ma non troppo_a cura di Anna Palmieri Lallai

Per tradizione ormai consolidata, siamo abituati a definire la Torre di San Pancrazio e quella dell’Elefante come torri “gemelle”, quindi praticamente identiche fra di loro, anche perché unite dallo stesso…”dna”, ma…La storia ci insegna che entrambe furono erette dai Pisani, i nostri primi dominatori medioevali. Correva, infatti, l’anno 1217 quando Benedetta di Massa Lacon, reggente la città giudicale di S.Igia (=S.Cecilia), cede incautamente ai fratelli pisani, Lamberto e Ubaldo Visconti, il Monte de Crastu, che, per quanto spopolato e quasi inaccessibile, era il punto più alto del territorio. Questi, divenuti i nuovi padroni, si trasferiscono su quel roccione e, nel 1258, tradendo la fiducia che Benedetta aveva riposto nelle loro parole, distruggono completamente la città giudicale di Santa Igia, prospiciente la laguna orientale, e ne decretano la morte, cospargendola, pare, di sale (e noi, moderni, di cemento).
I Pisani, di rimando, costruiscono la loro cittadella proprio su quell’alto “roccione” calcareo, che, con i suoi circa 98 metri sul livello del mare, si presentava non solo in una posizione dominante, ma anche strategica, quasi inespugnabile, con pareti a strapiombo e visibilità perfetta sul porto, per avvistare, in tempo quasi reale, eventuali presenze nemiche. Ma, per maggiore sicurezza, la difesa, già offerta in parte dalla natura, viene ulteriormente rafforzata e la cittadella viene cinta da mura, bastioni e torri, con relative porte d’accesso, il tutto posizionato nei punti più nevralgici, creando così un borgo fortificato, il Castrum Kalaris, dove, concentrandovi tutto il “potere”, la funzione di difesa e di controllo convivono e si integrano.
Un borgo piccolo, che, anche in considerazione del terreno in pendenza, assume la forma particolare quasi a “fuso”, tuttora esistente, che degrada leggermente man mano che si va verso il basso. E, com’era uso all’epoca, vengono erette delle torri di avvistamento o di guardia, che, data la forma del borgo, almeno in origine, erano tre: la torre di S.Pancrazio, in alto, nel versante nord-est, prospiciente l’entroterra, la torre dell’Elefante, eretta nel versante sud-est, nella parte bassa meridionale, che, collegando il centro col porto, quindi più esposto, trovava rinforzo nella terza torre, detta dell’Aquila o del Leone, che, danneggiata nel sec XVIII, è da tempo inglobata nel palazzo Boyl.
Le due torri superstiti, originarie, elevate in punti diversi perché fossero funzionali, vengono costruite in tempi leggermente differenti, ma usando lo stesso materiale e la stessa tecnica costruttiva. Entrambe, infatti, vedono in Giovanni Capula, di probabile origine sarda, il loro progettista, che nel realizzarle utilizza la forma a “L”, con tre pareti chiuse, tamponate con qualche feritoia longitudinale, e una parete aperta, rivolta verso l’interno. La torre di S.Pancrazio, in particolare, che campeggia nella parte alta del borgo, stretta tra la porta S.Pancrazio e la porta Cristina, a cavallo tra la piazza Arsenale e la piazza Indipendenza, viene elevata a partire dal 1304-05, come risulta da una epigrafe latina incisa su più righe in una lastra marmorea, originaria, collocata in prossimità dell’arco di entrata verso la piazza Indipendenza.

L’epigrafe, preceduta dalla croce pisana, offre tutte le notizie necessarie, informandoci che la torre fu innalzata sotto l’impresario pisano Betto Calzolari (Bectus Calzolarius), su progetto dell’architetto Giovanni Capula, opera sedula arcitector optimus Joa(n)nes Capula murariorum., essendo castellani Betto Alliata e Ranieri di Bagno. I loro stemmi gentilizi, infatti, in numero di tre (manca quello di Betto Alliata) sono murati sopra l’arcata d’ingresso. La torre di S.Pancrazio, probabile denominazione derivante dall’antica omonima chiesetta arroccata sul colle di Buon Cammino, viene elevata, al pari della torre dell’Elefante, sull’esempio delle classiche torri di guardia pisane, utilizzando la nostra caratteristica pietra calcarea o pietra forte, seguendo lo stesso schema costruttivo.


Entrambe le torri, infatti, sono completamente realizzate in blocchi di pietra calcarea, ricavata dal colle di Bonaria, con tonalità bianca o giallastra. I conci, dalla forma prevalentemente rettangolare, ben squadrati, levigati e sagomati da tutti i lati, sovrapposti con malta in filari secondo un progetto ben definito, perfettamente combacianti così da garantire una perfetta stabilità, evidenziano, a ben guardare, anche la presenza in terra sarda di esperti scalpellini, isolani e non, che sapevano lavorare con abilità la pietra da taglio, piuttosto dura, e nello stesso tempo, utilizzando una pietra locale, risparmiavano in tutti i sensi, anche nel trasporto.
L’impostazione delle due torri è la stessa, così ogni torre ha quattro piani, ben visibili nella parte frontale aperta, sostenuti da solai con robuste travi a vista poggianti su mensole d’appoggio e collegati da rampe di scale lignee, mentre, esternamente, si notano le caratteristiche mensoline laterali, realizzate decrescenti verso il basso, monoblocchi che, risalenti forse al periodo spagnolo, più che un semplice ornamento estetico, servivano come probabili piombatoi per colpire il nemico assediante. In particolare dalla torre di S.Pancrazio, data la sua posizione verso l’entroterra e la sua altezza di 36 m. al piano, era possibile comunicare, tramite fuochi, con altre torri dislocate nel territorio.
La torre dell’Elefante, invece, eretta con lo stesso materiale e la stessa tecnica costruttiva, ma in pendenza, s’impone nella parte bassa del borgo, tra la piazza S.Giuseppe, l’imbocco con la via Santa Croce e l’attuale via Università, già via del Balice. E la maestosità della parete aperta è ben visibile proprio verso lo slargo-piazzetta, mentre i tre lati chiusi sono esposti tra nord est e sud est, dove è tuttora visibile la caratteristica porta d’accesso archivoltata che, in tempi remoti, la notte o all’occorrenza, veniva chiusa da due robuste saracinesche lignee con aculei finali e grosse catena d’ancoraggio. Scendendo, superato il varco, che ancora m’incute “emozione”, in basso sulla destra, nell’avamposto della torre, lato sud est, una lastra in marmo riporta incisa una fitta epigrafe latina, che, tra tante abbreviazioni, ricorda che la torre fu elevata a partire dal 1306, su progetto di Capula Joh(ann)es cap(ut) magi(ster), essendo castellani Giovanni Cinquina e Giovanni Vecchi, i cui stemmi gentilizi, in gruppo di quattro, sono collocati nella medesima torre.

prospetto frontale

Le antiche “saracinesche”
della porta
Ma l’elemento che maggiormente caratterizza questa torre, che, essendo in pendenza, raggiunge i 42 m. lato occidentale verso Cammino nuovo, è quel curioso elefantino in marmo bianco che la denomina. Collocato sopra una mensola, a una altezza di circa 10 metri dal suolo, verso via Università, ancora veglia indisturbato rivolto verso il mare e non solo. Qui collocato forse solo verso il 1500, pare abbia sostituito un precedente blocco di arenaria nel quale era stato inciso, in modo rudimentale, una sorta di elefante, blocco oggi posizionato su un breve terrazzamento presso l’ingresso della stessa torre. L’elefantino, che ha subito l’ultimo importante restauro nel 1985, ancora oggi si presenta senza le zanne, che forse non ha mai avuto, perché considerato animale non di difesa, ma solo simbolo di potenza e fedeltà.


Evidenziate queste sfumature che le differenziano (posizione, altezza, denominazione), entrambe purtroppo, col tempo, hanno subito la stessa triste sorte. Infatti, quando i Pisani nel 1326 abbandonano definitivamente il Castrum, che diventa Castell de Caller con gli Aragonesi, il re d’Aragona Alfonso, tra il 1326 e il 1328, non ritenendo le torri più necessarie per la difesa, le trasforma in angusto carcere. Così i nuovi dominatori trasformano in prigione dapprima la torre di S.Pancrazio, chiudendo l’unico lato aperto, con affaccio verso la piazza Indipendenza. S’innalza una spessa parete, nella quale vengono realizzate delle aperture a livello dei piani, per poter illuminare, almeno in parte, l’interno, e si eseguendo delle modifiche sia strutturali che architettoniche, soprattutto per inserirvi delle celle.


Le inferriate ancora affisse alle finestre, visibili in parte verso S’avanzada, oggi via Ubaldo Badas, le fotografie d’epoca, ma soprattutto i documenti relativi, ne attestano la triste destinazione. Qui vengono tenuti prigionieri anche personaggi di un certo prestigio, ritenuti traditori, veri o presunti, come il nobile Brancaleone Doria, consorte di Eleonora d’Arborea, ostile al regime aragonese, che rimase in questa torre dal 1384 al 1386, poi, evaso, conosce il carcere della torre dell’Elefante, dal 1386 al 1390. Qui trascorre parte della sua vita anche Girolamo Pitzolo, membro dello Stamento militare, accusato, nel 1795, di congiura contro i Piemontesi, il cui cadavere fu oggetto d‘insulti da parte del popolo. All’interno vigeva un regime piuttosto rigido, tanto che, come attestato da una lapide sovrastante l’arco della porta S.Pancrazio o d’Altamira, Carlo Felice, nel 1825, fece realizzare nel baluardo di S.Pancrazio o Bastione Dusay una infermeria che, collegando gli ambienti con un corridoio, fosse commodo solatio per i carcerati. Stessa triste sorte subì la torre dell’Elefante, dove si rinchiudevano soprattutto i prigionieri politici o traditori. Le loro teste, rinchiuse dentro gabbie, venivano appese all’esterno della torre, verso la piazza, come monito per la popolazione. Tra le vittime eccellenti si menziona il marchese di Cea, ritenuto complice del delitto di Camarassa, che, giustiziato nel 1671 nella plazuela, oggi piazza Carlo Alberto, destinata a tale rito, mostrò la sua testa per ben 17 anni, scrivendo una delle pagine più tristi, dove tradimenti, rivalità, intrichi, vendette, coinvolgono alcuni nobili dell’epoca.


Ma il tempo, per fortuna, ha anche il grande potere o merito di cambiare tutto o quasi, e per entrambe le torri la loro misera destinazione cessa, dopo secoli, quando, alla fine dell’800, viene realizzato l’ormai ex carcere di Buon Cammino.
Più tardi, Cagliari, dal 1861-66 non più piazzaforte del Regno d’Italia, ha imparato a respirare a pieni polmoni la propria libertà, e l’ingegnere Dionigi Scano (1867-1949), subentrato a Filippo Vivanet nella direzione della sovrintendenza alle antichità e belle arti della Sardegna, pensa bene di ristrutturare le due torri, liberandole da quelle ingombranti sovrastrutture che le avevano mortificate troppo a lungo, ridando loro l’aspetto originale, con tutto quell’intramontabile fascino che ancora oggi m’incanta. La torre di S.Pancrazio fu liberata per prima, tra il maggio 1904 e il marzo1905, aprendo il lato di facciata verso piazza Indipendenza, mentre la torre dell’Elefante si apre alla nostra più ampia attenzione aprendo il lato di facciata tra l’ottobre del 1906 e il giugno del 1908, demolendo anche i fabbricati e tutte le suddivisioni interne costruite per l’occorrenza.
Ormai la torre di S.Pancrazio e quella dell’Elefante, gemelle o meno, perfette antiche sentinelle di guardia e di difesa del Castel de Castro, salvate dall’imperatore Carlo V dalla tentazione avanzata dal marchese F.Francesco d’Avalos di abbatterle, sono diventate, col la loro età di oltre 700 anni, simboli incontrastati di tutta Cagliari, così da apparire simbolicamente nelle due piccole torri che, con orgoglio, s’innalzano sulla sommità del nuovo palazzo civico o Palazzo Bacaredda di via Roma, Stampace.
A me e a tutti noi il piacere di ammirarle, sapendo di avere ancora “due torri gemelle”, che altri, purtroppo, non hanno più…ma questa è un’altra tristissima storia.
