Montevecchio e le società nazionali_di Tarcisio Agus

Con il 1934 si apriva un nuovo corso della miniera Montevecchio ora affidata alla Montecatini (Società Generale per l’industria Mineraria e Chimica), con la consociata Monteponi ereditava impianti e una riserva mineraria ancora di notevole potenza. La nuova stagione si apriva con una dotazione organica composta da 22 impiegati, (2 tecnici all’interno, il medico e 19 amministrativi) e 1.019 maestranze, distribuite fra 16 sorveglianti, 2 caporali, 437 minatori e manovali dell’interno, 253 manovali all’esterno, 68 addetti all’officina, 24 alla ferrovia, 67 ai servizi generali, 112 donne, 28 ragazzi, tutti all’esterno e 4 scritturali.
A governare la miniera e le maestranze tornò l’ing. Mezzena, già noto per la sua rigidità e dal pugno di ferro con i dipendenti, questa volta si portò per affrontare meglio il riordino della miniera alcuni suoi uomini della Montecatini.
Ambizioso e deciso, dopo un’attenta ricognizione dei cantieri stilò un puntuale e dettagliato programma di intensi lavori interni nei cantieri di Piccalinna, Sant’Antonio, Sanna, Telle e Casargiu per un investimento pari a 6.865.000 lire. All’esterno vennero interessati gli impianti di trattamento di levante con un 1.070.000 lire, mentre a ponente si concentrarono tutti i trattamenti nella laveria Sanna, l’investimento previsto fu di 2.800.000 lire. Questa scelta comportò la chiusura e l’abbandono della laveria La Marmora. Altri investimenti riguardarono il riordino della ferrovia per San Gavino, gli impianti elettrici, le officine e i servizi esterni per un valore complessivo di investimenti pari a 11.580.000 lire.
Pose gli uffici all’interno del palazzo Sanna Castoldi, modificandone parte, per assumere il ruolo di Direzione Mineraria. In particolare modificò l’ingresso principale con tre aperture ad arco, protette da un porticato, con gli accessi laterali come lo vediamo oggi. Il salone interno con mosaico, prima a doppia altezza, venne abbassato per ricavare al primo piano uffici, così come al piano terra venne suddiviso il salone e spostato, nel cortile interno, il busto di marmo di Giovanni Antoni Sanna, opera di Temistocle Guerrazzi, fratello del letterato Francesco Domenico Guerrazzi. Anche la parte superiore con la sala blu e le stanze adiacenti vennero trasformate in sede direttiva e di rappresentanza, mentre la parte ad oriente veniva mantenuta come appartamento del dell’amministratore della società, con accesso laterale nord, che sfruttava la scala esistente, entro la quale venne montato un ascensore.
La visione industriale della Montecatini si completò con la riorganizzazione amministrativa, affidato a dei capiufficio trasferiti dal continente e nello spirito del profitto introdusse in miniera il sistema Bedaux (Sistema di lavoro per aumentare al massimo la produzione eliminando i tempi morti). Per un’ulteriore produttività l’ing. Mezzena propose di sostituire la trazione animale nelle gallerie con i locomotori, ma la direzione di Milano, alla quale ormai si faceva riferimento, rigettò la proposta con la seguente motivazione: ”.. perché tutto ben considerato la prima costa meno della seconda ed é sufficiente alle necessità”.
Fu un anno di grandi lavori con approfondimento dei pozzi e la chiusura degli strozzi (antichi scavi), per meglio fruttare le vene minerarie, aperture di nuovi livelli di gallerie, moderni impianti d’aria compressa per l’esterno e l’interno, sistema di pompe di adduzione per l’allontanamento delle acque dai fronti di coltivazione. A Casargiu venne avviato lo scavo del nuovo pozzo Fais e nella laveria Principe Tomaso vennero radicalmente modificate le sezioni gravimetrica e la flottazione.
Un fervore che faceva ben sperare per una rapida ripresa produttiva e nuova occupazione, ma tutti gli sforzi posti in atto dall’ing. Mezzena non vennero apprezzati in direzione a Milano, si aspettavano migliori risultati visti gli investimenti. Il 30 di ottobre vi fu la visita dell’ing. Carlo Zaccagnini determinato a sostituire il direttore ing. Luigi Valsecchi. Ai superiori non piacque neanche la riduzione dell’orario di lavoro da 48 a 40 ore settimanali per il sabato fascista e l’aumento dell’organico, si passò da 1.347 ai 1.470 operai, con 40 impegnati, direttore e medico compreso.
Venne chiamato per far fronte a questi ultimi anni piuttosto travagliati, compreso l’ultimo che nasceva con grandi aspettative, ma si chiudeva con un disavanzo di 3.699.081 di lire, l’ing. Francesco Sartori, convinto che la miniera di Montevecchio doveva essere inserita in un contesto produttivo più ampio, con un suo sviluppo metallifero. Alla fonderia per il piombo di San Gavino, doveva affiancarsi la produzione dello zinco.
La sua idea fu quella di costruire un impianto elettrolitico, ma il presidente Donegani non reputava che in Sardegna vi fossero le condizioni sufficienti per garantire la fornitura elettrica di cui si aveva bisogno per alimentare l’impianto proposto, per cui la decisione finale della società fu quella di Porto Marghera, con l’affidamento del progetto all’ing. Giovanni Rolandi.
Pur deluso da questa scelta l’ing. Sartori mise mano a nuove ricerche e in tutti i pozzi vi furono ulteriori approfondimenti e nuovi livelli di estrazione, che portarono l’anno successivo a importanti miglioramenti produttivi di galena e blenda. L’azienda, per la prima volta, riprendeva gli ammortamenti e chiudeva l’esercizio in attivo, anche se questo non permetteva ancora di aumentare il capitale.
Il nuovo rapporto di fiducia fra le maestranze e il Sartori consentirono anche miglioramenti in ambito sociale, come l’istituzione dell’asilo infantile per i figli degli operai, con refezione gratuita, così vennero ampliati gli spacci, con generi di prima necessità a prezzi più bassi del mercato e infine si riprese la costruzione delle case operaie, con l’intento di aumentare il personale e farlo risiedere presso i cantieri, così detto, “a bocca di miniera”.
Nel 1936 si pose mano all’assetto societario, con graduale fusione delle società che interagivano fra loro: l’amministrazione della Montevecchio, la Italpiombo (fonderia di San Gavino) e l’Italzinco (Porto Marghera), la guida della miniera veniva affidata all’ing. Sartori e la direzione metallurgica del piombo e zinco all’ing. Rolandi, con sede a Milano.
Il 31 di marzo, seguirono atri spostamenti con il direttore Zaccagnini chiamato a guidare l’AMMI (Azienda Minerali Metallici Italiani). Alla direzione venne chiamato l’ing. Filippo Minghetti, coadiuvato dagli ingegneri Alberto Archibugi e Teodorico Cavallazzi.
Con l’entrata in produzione dello stabilimento di Porto Marghera, il 2 di settembre, la miniera di Montevecchio aveva la certezza della valorizzazione delle proprie blende.
Quest’importante traguardo era motivo di stimolo per ulteriori investimenti nei vari pozzi, ma in particolare venne triplicata la capacità della flottazione nella laveria Principe Tomaso che passava da 100 a 300 t/g. Altro intervento riguardò il miglioramento della ferrovia per San Gavino che s’incuneava nel sottosuolo presso la laveria Principe ove vennero costruiti i silos di stoccaggio dei minerali, con lo stesso principio di Porto Flavia ad Iglesias: i vagoni del treno potevano prendere posizione sotto i silos e caricare i minerali da trasferire alla fonderia di San Gavino (galena), mentre le blende proseguivano sino al porto di Cagliari, per Porto Marghera. Il cantiere Sanna, con la ricostruzione del castello del pozzo vedeva migliorare la capacità estrattiva e concentrare sul cantiere tutte le produzioni di ponente, tanto che la laveria veniva incrementata e portata alla stessa capacita di 300 t/g come quella di Principe Tomaso. Riprendeva l’occupazione che portò l’organico a 1.854 operai, per i quali vennero costruite 4 case al villaggio Righi, una a Sant’Antonio e l’ex laveria di Piccalinna trasformata in case per operai. Si riuscirono a mettere a disposizione degli operai scapoli 82 alloggi (110 vani) e 252 per le famiglie (528 vani). Le opere civili continuarono anche nel 1937, con 2 case operaie e 2 case per gli impiegati a Gennas, ove sorse la scuola elementare, il dopolavoro, il cinema e il nuovo laboratorio chimico. Fu anche l’anno di studio dei nuovi impianti teleferici, necessari per il movimento dei minerali e dei materiali da ripiena. Nel frattempo i costi di trasporto vennero ridotti grazie all’entrata in funzione delle teleferiche di Casargiu – Sanna e di Sanna – Sciria, all’estremità della quale vennero interrati i silos di stoccaggio dei minerali.
Nello stesso anno venne ampliata la laveria Principe Tomaso per poter trattare la calcopirite, che consentì la produzione di 613 t di minerali al 20% rame (Cu). Le produzioni crebbero ulteriormente, le maestranze raggiunsero i 2.436 e il bilancio si chiuse con un utile di 1.241.060 lire.
L’amministratore delegato, ing. Sartori, nel 1938 lasciava l’incarico per ragioni di salute, sostituito dall’ing. Rolandi.

La crescita produttiva viveva un momento favorevole, retto anche da un ulteriore ampliamento dell’occupazione, 2816 unità, che dava nuovo vigore alla ricerca, l’approfondimento dei pozzi, nuove traverse di produzione e l’entrata in funzione dell’ultima teleferica, Principe-Orefici a levante. Questo comportò ulteriori adeguamenti delle due laverie, con nuove sezioni di flottazione di 200 t/g, che contribuirono al buon andamento produttivo e permise agli azionisti un dividendo di 1,5 milioni di lire.
Il momento era più che favorevole, gli interventi di riorganizzazione e di ricerca diedero i loro frutti, pare che il 1939 sia considerato l’anno della massima produzione che Montevecchio abbia avuto, questo spinse i soci ad un ulteriore aumento di capitale e una fusione delle tre società che gestivano rispettivamente Montevecchio, San Gavino e Porto Marghera, in “Società Italiana del Piombo e dello Zinco” (Montevecchio SIPZ) con l’alternanza alla presidenza delle consociate Montecatini e Monteponi.
Fu l’anno del riordino di tutti i cantieri in via di espansione e per meglio classificarli vennero siglati, come per esempio, il cantiere Telle con la sigla TEL, Piccalinna PIC, Casargiu CAS, così pure l’Officina Meccanica ed Elettrica prese il nome di OME e i Sevizi Generali Esterni SGE, etc.
Vennero riorganizzati, sotto la direzione del direttore amministrativo, gli spacci aziendali con il principale a Gennas e gli altri tre a Righi, Rio e Telle, le due foresterie con 27 stanze, saloni, sale pranzo e ritrovo. Così pure gli alloggi operai distribuiti in ogni cantiere per 1400 persone, il massimo edificio per operai sarà l’Albergo Sartori con 300 posti letto e tutti i servizi. Si pensò anche alle famiglie degli impiegati e operai, con 50 appartamenti per gli uni e 350 per gli altri, sparsi nei cantieri e principalmente a Gennas, dove venne costruito anche il dopolavoro operai, con bar, biblioteca e sala di lettura.
La miniera come tutte le imprese industriali del tempo puntava a creare un luogo famigliare e coeso, pensò così all’istituzione della banda musicale e alla realizzazione degli impianti sportivi, per il calcio, tennis, pallavolo, pallacanestro e bocce. I servizi si allargarono ulteriormente con la nascita dell’asilo infantile, gratuito per tutti i figli dei dipendenti, e l’ampliamento dell’ospedale con ambulatori e il gabinetto radiologico, ambulanza, medico e radiologo, con alcuni infermieri che garantivano l’assistenza in forma continuativa, nello spirito di conciliare casa e lavoro. In quest’ottica si migliorarono le attività per il carico e scarico dei vagoni nelle gabbie e s’introdussero i primi locomotori a nafta (8-10 HP). I lavori di ricerca e produzione, pur elevati, segnarono dei tenori leggermente inferiori agli anni precedenti ma l’ottima organizzazione e lo spirito positivo creatosi produssero 33.109 t di galena al 60% di PB e 49.271 di blenda al 59,7 % di Zn.
Dal 1 settembre 1939, con l’entrata in guerra della Germania e la Polonia, cominciavano a farsi risentire anche a Montevecchio gli echi di una nuova guerra e pur non essendo coinvolta l’Italia, vennero richiamati alle armi molti minatori e dirigenti. Quest’infausto evento comportò da subito la limitazione dell’esportazione delle blende verso la Francia, con la conseguente riduzione delle produzioni. Fortunatamente la situazione si riprese grazie alla forte richiesta di blende verso la Germania che ridestò il lavoro, ma lo scoppio della seconda Guerra Mondiale gelò ogni speranza. I 3000 addetti, presenti nel mese di maggio del 1940, dopo tre mesi si ridussero a 2.721 unità.
La nuova organizzazione e lo spirito collaborativo consentì il mantenimento di livelli produttivi con 519.856 t di grezzi, 34.558 t di galena al 63,89 % in Pb e 40.031 t di blenda al 59,73% in Zn.
La guerra proseguiva e l’emorragia delle maestranze si materializzava con una nuova perdita a giugno del 1941 con 535 operai (-34%), per arrivare fino al superamento del 50%. Immancabile la chiusura di alcuni cantieri, mentre i costi di gestione erano in continuo aumento, dalla manodopera ai materiali, combustibili, reagenti chimici ed elettricità, mettendo a rischio anche quelle produzioni che ancora potevano esser fatte. Mentre il prezzo dei minerale ristagnava, tanto che il 12 agosto del 1941 dovette intervenire il Ministero delle Finanze con un riconoscimento di 85 centesimi al Kg sul zinco e sul piombo. Nell’anno, alle diverse criticità, si aggiunse anche la diatriba innescatasi fra la tonnara di Flumentorgiu e la miniera che scaricava le acque del sottosuolo a Piscinas, ove si calava la tonnara. Montevecchio fu richiamata, con l’ingiunzione del 4 maggio 1940, a eseguire un’opera di mitigazione con la realizzazione di una diga. “..per non intorbidire le acque della tonnara di flumentorgiu ed impedire il passaggio dei tonni”.
In quell’anno i minatori ancora presenti potevano beneficiare di nuove attrezzature, in particolare per proteggersi dalla silicosi vennero dotati di maschere e di perforatrici ad acqua e i cantieri di nuova ventilazione. Ancora una volta, nonostante tutto, Montevecchio chiudeva l’anno con con un utile di 11.500.000.
Il 13 di agosto del 1941 veniva a mancare l’ing. Sartori, considerato uomo espertissimo e valente amministratore, da tutti stimato e rispettato.
La guerra entrava nel vivo e il personale continuava ad essere richiamato, mettendo in grave difficoltà l’operatività della miniera. Per farvi fronte e sostituire gli assenti vennero inviati a Montevecchio, nel 1942, 250 prigionieri di guerra, ospitati nei cameroni di Piccalinna, ma la scelta si rivelò da subito infelice, con scarsa volontà al lavoro e solo quando volevano, forti della convenzione di Ginevra che gli tutelava. Non restò altro che restituirli alle Forze Armate. Non furono i soli a essere inviati in miniera per sopperire le carenze del personale, vi fu anche l’invio di 200 mobilitati civili (Migrazioni interne) ma solo 28 poterono essere utilizzati, il resto, con gli altri 100 inviati dalle Compagnie Militari Lavoratori furono rigettati.
La guerra poneva molti limiti alle coltivazioni ma Fabbriguerra richiedeva ingenti quantità di piombo e zinco e per spronare la produzione il 14 di maggio del 1942, a inaugurare l’ultimo albergo operaio intitolato a Francesco Sartori, fu Mussolini, accolto ed acclamato dalla folla e dagli operai ai quali parlo dalla finestra del dopolavoro. Pur a fronte della continua emorragia del personale, che proseguiva anche nel 1943, in miniera vennero eseguiti importanti lavori in tutti i cantieri e si continuò l’estrazione, anche se questa doveva essere stoccata perché l’espandersi del conflitto non consentiva più l’esportazione, provocando inoltre il mancato approvvigionamento dei materiali, combustibili ed esplosivi. Nell’estate del 1944 venne meno la fornitura elettrica che costrinse la miniera a fermarsi, con la messa in libertà di quasi 1.500 lavoratori. Con i 528 operai rimasti e 49 impiegati ci si limitò a eseguire quei lavori indispensabili di manutenzione, in particolare del sottosuolo.
Non potendo vendere i materiali scarseggiavano le risorse per i salari, così nel 1944 la miniera, sfruttando le officine e la falegnameria, si mise a produrre per conto terzi. Dalle officine uscivano stampi in ghisa per la produzione di mattonelle, fornelli in ghisa per uso domestico, aratri, vomeri, erpici, griglie di ogni tipo, la falegnameria produceva infissi e sedie, in particolare si ricorda l’intero arredo per il teatro Massimo di Cagliari. Anche il laboratorio chimico concorse alle produzioni con saponi per il bucato, cosmetici e lucido per le scarpe. Le officine inoltre garantivano, con un gruppo mobile, la manutenzione degli aerei di stanza all’aeroporto militare di Sa Zeppara. Già dai primi mesi del 1943 l’aeroporto in località Partiossu, ospitava gli aerosiluranti italiani a protezione di Gibilterra e poco prima del bombardamento della città di Cagliari, veniva distrutto l’aeroporto di Monserrato, che ripiegò su Sa Zeppara, con il trasferimento dei Msserschmitt Bf 109 tedeschi e i MC 200 italiani. Divenne il centro di revisione aerea più importante della Sardegna sino alla fine della guerra. Le maestranze di Montevecchio impegnate nell’importante collaborazione, in tutto una quarantina, operavano sugli aerei prima e dopo il volo, sotto la sorveglianza tecnica della Regia Areonautica e di un ufficiale della Luftwaffe.
Dopo la guerra la ripresa fu lunga e difficile perché anche la Montecatini e Monteponi furono pesantemente colpite per cui Montevecchio dovette far tesoro delle proprie capacità. Si tentò timidamente di riprendere i lavori perché le società madri, con alcune iniziative commerciali, riuscirono a introitare risorse per il ristoro dei dipendenti rimasti e nell’agosto del 1945 ripresero i lavori nei punti più ricchi dei cantieri. Questo consentì, già dal 1946, il graduale rientro delle maestranze con la ripresa delle ricerche e delle preparazioni e l’anno si chiuse positivamente con un utile di 16 milioni di lire. L’anno successivo il personale crebbe nuovamente raggiungendo i 2.284 operai e 153 impiegati, a ciò si aggiunse la grandiosa campagna antimalarica dell’ERLAS che interessò anche Montevecchio dal mese di marzo. L’operazione consentì senza dubbio di avere maestranze più sane e con meno assenze, che concorsero a riaprire tutti i cantieri, eccetto Casargiu. Arrivò così anche il 1948, l’anno del centenario, che la società volle ricordare con l’apertura il 1 di gennaio del Centro di Assistenza, diretto prioritariamente agli invalidi, agli anziani, alle vedove e orfani. Gli interventi venivano erogati su semplice richiesta al direttore o vice direttore amministrativo che valutavano le necessità e i bisogni (malattie, disgrazie, difficili situazioni famigliari, e bisogni vari). Ormai tutti i cantieri ripresero le attività, compreso Casargiu e le maestranze raggiunsero le 3.136 presenze. Venne accelerata tutta la meccanizzazione, in particolare diversi cantieri vennero dotati di locomotori, l’ultimo mulo addetto al traino dei carrelli minerari uscì dal sottosuolo nel maggio del 1951, di nome Ucci.
La voglia di ripresa era tanta e la ricerca frenetica delle soluzioni consentì alle officine di produrre la prima pala meccanica su rotaia. Dal 25 al 30 di novembre vi fu la visita dei vertici delle due consorelle Montecatini e Monteponi, vennero accolti dalla moglie Rina e dalla figlia Maria Pia dello scomparso amministratore delegato ing. Francesco Sartori, dal direttore generale Giovanni Rolandi e dal direttore minerario Filippo Minghetti.
I cent’anni della miniera furono anche l’occasione, nel giorno di Santa Barbara, 4 dicembre, per la distribuzione dei premi ai 3.136 operai, 152 impiegati, 65 anziani tra minatori e impiegati, 105 persone assistite dal Centro Assistenza, con un impegno finanziario di 225 milioni di lire. Per la ricorrenza del centenario vennero coniate le medaglie in argento e la stampa di una speciale pubblicazione in tre volumi: Notizie sull’industria del piombo e dello zinco in Italia. Due giorni dopo la festa di Santa Barbara la miniera ospitò i partecipanti al Congresso Minerario mondiale per un’intera giornata, con visite nel sottosuolo e degli impianti interamente rinnovati.
Il nuovo anno si apriva con dure manifestazioni sindacali in tutto il bacino minerario della Sardegna, per il rinnovo del contratto di lavoro. Gli impiegati di Montevecchio si distinsero subito e accettarono, il 4 gennaio 1949, un accordo favorevole. Mentre gli operai manifestarono la non collaborazione con azioni che scaturirono in sabotaggi mettendo a rischio la sicurezza della miniera, per queste ragioni la società dispose la chiusura di tutti i cantieri, dal giorno 24 sino al 31 di gennaio, sino a quando una parte di minatori, 434 aderenti ai sindacati liberi, decisero di rientrare sottoscrivendo l’accordo di collaborazione. Le manifestazioni interessarono tutto il mese di febbraio, anche se altri operai chiesero di rientrare al lavoro sottoscrivendo anch’essi l’accordo. Le manifestazioni cessarono il 10 di marzo, quando venne sottoscritto tra l’azienda e le maestranze il Patto Aziendale. Era un accordo favorevole in quel momento, prevedeva l’aumento salariale del 50/60% nella paga oraria e altri premi. L’intesa però imponeva una tregua sindacale della durata di 12 anni ed il licenziamento per chi non lo sottoscriveva. Il Patto Aziendale si estendeva anche alla fonderia di San Gavino e all’impianto di elettrolisi di Porto Marghera. Un meccanico di Guspini, il sig. Arturo Tuveri, che operava in fonderia non firmò il Patto. Per le sue posizioni politiche di convinto antifascista subì il confino per due anni, ma per la sua onestà intellettuale e la sua dedizione al lavoro la direzione non lo licenziò, subì però una decurtazione stipendiale per 10 anni, pur essendo un operaio specializzato, gli fu riconosciuto uno stipendio di un manovale comune decurtato di 10 lire.
La quiete tornò nella vasta miniera, ripresero tutti i lavori nel sottosuolo e si dava corso a nuove tecniche di coltivazione con l’inizio delle rampe, in particolare la prima fu costruita a Casargiu. Infrastruttura che a ponente avrebbe sostituito il Pozzo Fais, permetteva l’accesso in miniera direttamente con i mezzi meccanici e i camion. Sempre a ponente lo sbarramento Zerbino fu sostituito da quello in calcestruzzo di 300.000 mc, intitolato a Donegani.
Ripresero l’ampliamento di strutture di servizio e in particolare a Gennas nascevano la rimessa, altri appartamenti per impiegati e lo stabile per il servizio geologico e il museo minerario.
Gli anni del Patto Aziendale per l’azienda e per le maestranze furono anni di grandi produttività anche se si doveva, con il calo del tenore dei grezzi, trovare nuovi filoni con l’approfondimento dei livelli produttivi. Per arieggiare le ulteriori profondità, nel 1950, venne inaugurata la Centrale Minghetti, posta a cavallo della 1° e 2° concessione, riusciva a distribuire l’aria compressa nelle due miniere più produttive di Sant’Antonio e Sanna.
Non tutto andava bene perché nello stesso anno un incendio scoppiato al 3° livello di Piccalinna, domato dopo 11 ore di lavoro, mise a rischio il proseguo dello sfruttamento della miniera, mentre l’altro avvenimento, questa volta internazionale, creò un momento favorevole anche a Montevecchio. Con lo scoppio il 25 di giugno della guerra in Corea, la quotazione dei metalli risalì, interrompendo la staticità dei prezzi fermi da tre anni. L’anno successivo vi fu un aumento di capitale da 1,5 a 2,5 miliardi ma la direzione della miniera non spinse per aumentare a dismisura le produzioni, l’ing. Rolandi diede chiare disposizioni “.. La lievitazione dei prezzi di Londra non deve fuorviarci… Niente quindi forzature di produzioni, ma estrazioni regolari sul passo delle 35.000 t/anno di metalli contenuti nei concentrati. Sviluppo invece delle ricerche nei vecchi e nuovi campi, perché è necessario che Montevecchio, che già vive da oltre un secolo, duri il più possibile nel tempo”. L’ingegner Rolandi fu l’artefice di un periodo fecondo anche per le maestranze, fu lui l’ideatore della colonia marina di Funtanazza, così scriveva nel 1951 all’ing. Minghetti: “..Per i bimbi dei nostri operai Le ho già fatto cenno di un mio disegno di costruire una colonia molto moderna ed efficiente al mare..”. Non perse di certo tempo e il 18 di dicembre dello stesso anno si dava mandato all’impresa Manfredi per la realizzazione della strada Montevecchio Funtanazza di 18 km, per un importo di 500 milioni. A seguire, l’anno successivo, venne portata la linea elettrica e la condotta idrica. A Montevecchio nacquero le palazzine di villaggio Rolandi e tre case a Villaggio Righi. In ambito minerario venne disposta un’ampia ricerca su tutta la miniera, con sondaggi e approfondimenti, ma sicuramente l’aspetto innovativo fu l’entrata in esercizio dell’impianto di trattamento detto Sink and Float che permise la riduzione del 15% dei costi di trattamento e un aumento di breccino utile per le ripiene.

Si asfaltarono le strade Montevecchio Guspini e Montevecchio Funtanazza, compresa la bretella che portava alla località Gutturu de Flumini (marina di Arbus). L’anno si chiuse con il completamento del villaggio Rolandi, e la messa a disposizione dei comuni di Arbus e Guspini di 17 milioni per la costruzione di case di edilizia popolare con piano Fanfani.
Il 1953 si ripresentava con l’ennesimo calo dei prezzi del piombo e zinco, ma questa volta, grazie all’integrazione delle fonderie di Sangavino e Porto Marghera, il valore dei minerali estratti furono sostenuti dal recupero dei minerali secondari e dalla produzione di prodotti finiti.
Purtroppo non fu positiva l’ampia ricerca, per cui si puntò sulle soluzioni tecnologiche che potessero abbattere i costi di produzione e migliorare i rendimenti. Entrava così in esercizio, con il sistema Sink and Float, anche la laveria Sanna, mentre in miniera, per la prima volta, si utilizzò l’autovagone gommato che permise di eliminare tutti i tracciati ferroviari e il lancia ripiene pneumatico, realizzati nelle officine di levante.
Il 1954 divenne l’anno delle economie anche se ancora dovevano essere completare diverse strutture a Gennas, compresa la caserma dei carabinieri, inaugurata dal presidente della Regione Sardegna, on.le Crespellani. L’anno successivo, con la ripresa delle quotazioni dei metalli, s’intensificò la meccanizzazione che stava dando buoni risultati e i lavori civili, compresa la colonia marina di Funtanazza, intitolata all’ing. Francesco Sartori, che sarebbe stata inaugurata il 13 maggio del 1956, alla presenza dei figli dell’ing. Sartori, delle autorità regionali e del presidente della società conte Carlo Faina.
La meccanizzazione e la gestione produttiva durante la guerra è da ascriversi a Letterio Freni, capo officina, giunto a Montevecchio con la Montecatini. A lui si ascrivono le invenzioni dei mezzi introdotti nelle coltivazioni e negli avanzamenti. Quella più importante, che rivoluzionò il duro lavoro in galleria, fu l’ Autopala Montevecchio trasformando l’Ercolino, un grosso vagone su rotaie di 1.500 litri, sempre da lui ideato, al quale applicò una pala e un motorino a catena che permetteva di scaricare il raccolto della pala nel vagone retrostante. Con le ruote gommate poteva muoversi in ogni direzione entro gli stretti spazi delle gallerie. Venne subito richiesta da tutti i cantieri, ma anche da altre miniere che vennero a conoscenza della rivoluzionaria macchina. Purtroppo le officine non erano in grado di produrne in quantità, si tentò di coinvolgere diverse imprese ma in Sardegna non fu possibile, per cui ci rivolse alla svedese Atlas Copco, che la brevettò, distribuendola sui cinque continenti. In particolare produsse due modelli di Autopala Montevecchio, la T4G con un cassone di 1.500 l e la T2G con un cassone di 750 l, più maneggevole e briosa, fu quella di maggior successo.
Nella meccanizzazione fu coinvolto anche il settore amministrativo, con la realizzazione del Centro Meccanografico, il primo in Sardegna, che gestirà la miniera di Montevecchio e la fonderia di San Gavino.
In quegli anni la comunità di Montevecchio dovette registrare un grave lutto, 5 famiglie abitanti a Gennas, il 24 giugno 1957 nella località marina di Gutturu de Flumini, persero in un tragico annegamento i propri figli e il loro accompagnatore sig. Artorige Boldrini.
L’incidente turbò l’intera comunità mineraria ma la miniera restava al centro delle attenzioni della società e maestranze, nonostante gli alti e bassi del valore dei metalli e la guerra, il decennio (1950-59) si chiuse positivamente, lo chiamarono il “decennio d’oro” con 589.999 t di mercantili e 357.117 t di metalli contenuti nei mercantili, la produzione raggiunse il 75% più del decennio precedente.
Un risultato che non si ripeterà più, sia perché diventava sempre più complesso estrarre il minerale dai livelli in profondità, sia perché calavano anche i tenori metallici.
Il nuovo decennio poneva molti interrogativi alla dirigenza, in particolare i costi del lavoro in crescita e un giacimento che sembrava entrato in fase di esaurimento. Per non abbandonare la miniera il Consiglio di Amministrazione, prima di lasciarsi andare al pessimismo, decise di porre in essere grandi ricerche in tutta la concessione. Venne predisposto un programma straordinario denominato S.G.I (Sviluppo Giacimento e Impianti), poi successivamente ampliato con il titolo “Piano Faina”. Il piano finanziato dalla Montecatini, perché la Monteponi non era in grado di farlo, si attesterà su 3.500 milioni.
I lavori di ricerca posero in connessione tutti i pozzi di levante con il Sanna, così pure a ponente il Sanna con il Telle, in un anno le gallerie aperte e percorribili risultarono 79.325 m, di cui 40.186 nude, 20.832 murate, 14.200 armate in ferro e 3.477 armate in legno. Vi operarono 1.445 persone, con l’utilizzo di 38 autovagoni e 40 autopale.
Un’imponente opera che faceva ben sperare, ma nel 1961, in tutta la Sardegna, iniziò un periodo di aspre lotte sindacali e le maestranze di Montevecchio furono invitate, dalla Federazione Provinciale Minatori (FILIE), a unirsi allo sciopero per i rinnovi contrattuali, in particolare si contestava il cottimo, il cronometrista che misurava i tempi di lavoro degli operai e i biglietti di punizione.
Fu così che il 17 di marzo, dopo aver preso servizio nei vari cantieri, i minatori bloccarono tutte le ricette (parte antistante l’accesso alle gabbie) e nessuno poté uscire, così pure vennero bloccati gli automezzi e la miniera si fermò.
Da subito iniziarono gli incontri e gli interventi per far cessare l’occupazione, che coinvolse perfino il vescovo di Ales, oltre che i parlamentari e le autorità regionali.
All’esterno della miniera erano le donne dei minatori con i loro figli che per 15 giorni prepararono i pasti per gli occupanti, riuscendo ad eludere i sorveglianti che ne impedivano il contatto, così com’erano in prima fila nelle manifestazioni che la polizia tentava di disperdere facendo ricorso, per la prima volta, al lancio di lacrimogeni con il ferimento di una dimostrante.
La società e i sindacati al termine di duri confronti si accordarono nell’accettare l’arbitrato del presidente della regione Sardegna, che emesse le sue determinazioni il 1 di aprile alle ore 20,30, tutto il personale lasciò le postazioni la domenica di Pasqua del 2 aprile 1961. Con questa dura azione di protesta si ottenne, dopo 12 anni, attraverso un referendum anche la cessazione del Patto Aziendale.