Luglio 27, 2024

Fare impresa non è roba per “indifferenti”. Etica e sostenibilità come vincoli valoriali_di Giuseppe Melis

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Giuseppe Melis

Non c’è alcun dubbio che le imprese siano le cellule fondamentali di qualsiasi processo di sviluppo economico, cioè di quel processo in base al quale il valore dei beni e servizi creati è superiore a quello delle risorse impiegate per realizzarle.

Questa capacità di produrre valore è data dal cosiddetto mercato, cioè da quanti, soggetti fisici o giuridici di qualsivoglia tipo, acquistano i beni e servizi di cui sopra. Questo significa che non possono esistere imprese senza mercato, una impresa senza mercato è destinata a fallire. Il mercato, pertanto, è il giudice insindacabile della capacità di quella impresa di creare valore.

A questo punto occorre anche precisare che il valore creato può essere declinato in vario modo: possiamo avere infatti un valore economico, misurato dalla differenza positiva tra ricavi e costi, ma anche valore sociale, misurato per esempio dalla capacità di occupare persone a condizioni dignitose. Il valore sociale generato dalle imprese è però dato anche dalla capacità di queste entità di radicarsi e armonizzarsi nel contesto ambientale e sociale in cui opera, rispettandone le peculiarità culturali e sociali.

Nondimeno, le imprese possono creare valore ambientale quando la produzione di beni e servizi da un lato utilizza risorse locali dei luoghi in cui insiste e, nel contempo, non le distrugge ed anzi le valorizza. Ancora, le imprese possono creare valore organizzativo dal momento che il modo con cui i soggetti operanti nella stessa riescono a concepire un sistema di relazioni formali e informali interne ed esterne capaci di creare benessere per quanti hanno modo di interagire reciprocamente.

Ebbene, così come le imprese possono generare queste diverse forme di valore, analogamente possono distruggerlo, ponendo in essere le medesime attività.

Questo vuol dire che il modo di fare impresa non è neutrale o, se si vuole usare una espressione gramsciana, non è indifferente e, di conseguenza, occorre essere partigiani, perorare un preciso modo di fare impresa e non accontentarsi di avere imprese.

A conferma di questa tesi mi soccorrono Philip Kotler (universalmente riconosciuto come il padre del marketing), Hermawan Kartajaya e Iwan Setiawan che nel loro volume Marketing 5.0. Tecnologie per l’umanità, scrivono testualmente che “le imprese attuano la loro produzione in base ai valori” e continuano poi affermando che “prodotti e attività non mirano solo a generare profitti, ma anche a fornire soluzioni ai maggiori problemi sociali e ambientali del mondo” (p. 3).

Si comprende a questo punto che per risolvere i maggiori problemi sociali e ambientali del mondo serve fare impresa facendosi guidare da valori etici, quali la pace e la sostenibilità.

L’etica, infatti, come bene scrive l’enciclopedia Treccani, consiste, filosoficamente parlando, in “ogni dottrina o riflessione speculativa intorno al comportamento pratico dell’uomo, soprattutto in quanto intenda indicare quale sia il vero bene e quali i mezzi atti a conseguirlo, quali siano i doveri morali verso sé stessi e verso gli altri, e quali i criterî per giudicare sulla moralità delle azioni umane”. Più in generale, pertanto, si considera l’etica come il “complesso di norme morali e di costume che identificano un preciso comportamento nella vita di relazione con riferimento a particolari situazioni storiche”.

Ebbene, è facile a questo punto chiedere:

  • La guerra è bene o male?
  • La distruzione dell’ambiente naturale è bene o male?
  • La sottomissione di qualsiasi persona è bene o male?
  • Il ricatto di qualsiasi persona, anche in cambio di un lavoro considerato “sporco”, è bene o male?

Ecco perché a questo punto occorre chiedersi se l’impresa che si vuole portare avanti è finalizzata al bene o al male, secondo le categorie che oggi l’umanità considera tali. Posso rimanere indifferente al fatto che l’impresa che sto considerando operi per il bene o per il male, operi per la pace o per la guerra, operi per la distruzione o la salvaguardia dell’ambiente, ecc.?

Leggere Antonio Gramsci può essere di aiuto per avere un sussulto e reagire a quello stato di passività e fatalità che investe parti importanti della società di questi primi due decenni del terzo millennio, caratterizzati dal venir meno di tante certezze e, conseguentemente, dall’accettazione acritica di qualsiasi decisione, anche sbagliata, che possa illuderci di stare meglio o, quanto meno, di risolvere il problema personale e quotidiano di portare a casa uno stipendio purché sia, anche se sporco di sangue innocente, giustificato, secondo taluni, dalla ineluttabilità di miserrimi comportamenti umani, come la guerra, lo sfruttamento delle persone e la distruzione dell’ambiente naturale.

“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. 

L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo? 

Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. 

Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”.

Antonio Gramsci, 11 febbraio 1917

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