Ottobre 7, 2024

Le ville rustiche di Neapolis_di Tarcisio Agus

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L’avvento romano nel territorio neapolitano, dopo la conquista del 238 a.C., porterà progressivamente alla scomparsa delle piccole e medie fattorie, che rappresentavano l’ossatura agraria del territorio nella fase punica, anche se pare non mancassero dei latifondi. La conquista romana dell’isola portò all’acquisizione di tutto il territorio cartaginese, rendendolo agro pubblico del popolo romano. Nella fase imperiale iniziale, 27 a.C. – 65 d.C., fu istituito in Sardegna il latifondo pubblico, detto patrimonio municipale, affidato ad amministratori privati per le produzioni cerealicole necessarie alla capitale dell’impero. La riorganizzazione agraria consentì ad alcuni latifondisti sardo punici di mantenerne le proprietà, in quanto resisi sottomessi a Roma, mentre altre estensioni terriere furono date in affitto ad appaltatori, presso comunità non urbanizzate, generalmente al servizio del latifondo. Prossime alla città di Neapolis il latifondo romano potrà esser meglio documentato se  si intraprenderanno puntuali ricerche scientifiche  negli eloquenti resti di alcune ville rustiche, in particolare ad occidente della antica città. La mancanza di scavi e l’assenza di testimonianze epigrafiche non ci permettono ancora di conoscere l’evoluzione e l’apporto economico che il territorio neapolitano ha fornito all’economia romana del tempo.

Certo è che nel profondo fiordo, che muove da Marcedì per incunearsi sino al promontorio dove venne fondata l’antica città di Neapolis, si affacciano non meno di tre importanti ville.

Delle tre ville, allo stato attuale sembrerebbero quelle più sontuose fra tutte quelle note nel vasto territorio neapolitano, non ne conosciamo i possessori, ma per la loro complessità, anche se più modeste rispetto alle ville italiche, si suppone fossero in mano ad influenti personaggi dell’epoca. Così come ancora non sappiamo se ci troviamo di fronte a ville inserite in latifondi pubblici, privati o imperiali.

Con molta probabilità anche le nostre ville rustiche sorsero a seguito della legge del 218 a.C., che costringeva l’oligarchia senatoria  ad investire in terre.

Sicuramente una delle tre ville, in particolare quella di S’Angiarxia (Arbus), per la sua posizione ed entroterra, può essere annoverata villa marittima, mentre le altre due di Sa Tribuna (anch’essa nel territorio di Arbus) e di Coddu de Acca Arremundu (Guspini), possono  classificarsi ville rustiche, anche se oggi, per le mutate condizioni ambientali, queste ultime si trovano ai bordi del vasto compendio ittico di Marcedì. Della villa di S’angiàrgia, dirimpetto al borgo di Marcedì, ne conosciamo parte della sua estensione e storia, in quanto è stata oggetto di scavo archeologico. Mentre conosciamo meno della villa rustica di Sa Tribuna, presso Su Stangiôni, dirimpetto al borgo di Sant’Antonio di Santadi, entro il poligono di Capo Frasca, e quella di Còddu Acca Arremùndu, presso Rio Sabòccu, a poca distanza da Neapolis. La restituzione di materiali di spoglio in queste ultime, se pur frammentario, ci hanno permesso di conoscerle meglio, nonostante il loro precario stato di conservazione.

Villa marittima di S’Angiàrxia.

Come accennato, il complesso archeologico è posizionato in regione S’Angiàrgia, da cui prende il nome. Viene classificato villa marittima per la sua collocazione panoramica nella parte occidentale della laguna di Marcedì, diciamo a confine tra il mare e la laguna. Inoltre il suo entroterra si eleva nella scoscesa altura sino al piano di Capo Frasca, non idoneo ad alcuna coltivazione.

Planimetria della villa di S’angiàrxia

I romani chiamavano le ville marittime anche ville di piacere, in quanto non erano in grado di provvedere alla propria vita, come quelle rustiche, tanto che le consideravano luogo di costo più che di ricavo. Erette per dare lustro, piacere e ristoro al suo dominus, la nostra S’Angiàrgia godeva di un’entroterra con  abbondante selvaggina e sedeva su un leggero costone con una splendida vista sul  golfo, nonché sul traffico mercantile della città di Neapolis, alla quale faceva riferimento. 

Della villa marittima di S’Angiàrgia, grazie agli scavi del 1951, che ne misero in luce una parte, si è potuto appurare fosse dotata di un lungo porticato a mare, che immetteva negli ambienti termali. Nella presentazione del sito, nell’opera “Neapolis ed il suo territorio” del Prof. Raimondo Zucca, si rileva l’esistenza di strutture sommerse prospicienti la villa, che farebbero pensare alla presenza di un molo, ma non si esclude possano essere strutture legate ad un impianto di piscicoltura. Se così fosse la nostra villa marittima si discosterebbe da quelle più classiche, in quanto capace di propri ricavi per il mantenimento della stessa e delle maestranze, che in quel periodo erano prevalentemente schiavi.

La sala dei mosaici della villa di S’angiàrxia

La sontuosità della villa, come ci riporta il Prof. Zucca, oltre la sua estensione, viene anche rilevata  da una preziosa decorazione a parete, costituita da lastre marmoree (marmo cipollino, pavonazzetto, serpentino). Mentre alcuni vani termali del frigidarium  e del calidarium avevano i pavimenti musivi, riconducibili al III secolo d.C. Le tessere dei mosaici racchiudono elementi geometrici e floreali, ed in particolare si legge: “dal festone partono steli verdi di diversa lunghezza con melograni rossi e ocra e boccioli  rosa profilati di rosso, che invadono tutta la porzione di campo lasciata libera dal meandro e dai quadrati”.

Il ritrovamento e l’utilizzo nel calidarium di un laterizio con bollo databile al 161-168, a detta del Prof.Zucca:“indurrebbe a scrivere l’impianto originario alla II metà del II sec. d.C., con successive ristrutturazioni”, sino all’alto medioevo.

Villa rustica “Sa Tribuna” o “Sa Duana”

Complesso romano scoperto da E.Benetti nel 1905, posizionato nell’attuale piccolo fiordo dello stagno, detto Su Stangiôi, dirimpetto all’attuale borgo rurale di Sant’Antonio di Santadi. Come già accennato in epoca romana lo stagno risultava più basso e l’insenatura non era ancora invasa dalle acque, ma era parte integrante del vasto territorio seminativo, che si estendeva ad occidente ed a mezzogiorno della villa. Delle antiche vestigia si conservano alcuni vani, che ancora oggi risultano interrati e voltati a botte, segno di una struttura su due livelli di vasta estensione.

Dobbiamo quindi pensare ad una villa agricola, dotata di un territorio di almeno 1500 ettari,  così come la legislazione romana concepiva il latifondo. L’assenza di scavi e studi scientifici non ci permettono una approfondita conoscenza del sito, ma alcune considerazioni posso trarsi dagli importanti materiali di spoglio, che l’ampio complesso ci ha restituito.

In particolare sono i frammenti di pregiati sarcofagi e colonne cipolline, che fanno pensare alla presenza di un importante personaggio del tempo in grado di importare materiali artistici provenienti dall’urbe.

Non meno di cinque grossi frammenti marmorei, con immagini di Eroti (Amorini) impegnati in attività ludiche venatorie, fanno pensare alla richezza della villa, in particolare si ricordano: il primo frammento con il puto, che regge una testa bovina, un albero ed un grifone; il secondo, sempre con rappresentazioni animali, con il toro è presente, anche se non molto chiara, una tigre od un leopardo; il terzo frammento, dato da due pezzi posti ad angolo, sono: da un lato un albero ed un cerbiatto e sull’altro un albero ed un cinghiale; il quarto elemento marmoreo rappresenterebbe una scena in corsa di un toro. Nell’opera curata dal Prof. Cornelio Pusceddu “Diocesi di Ales-Usellus-Terralba aspetti e valori”, che ne da per la prima volta testimonianza, si pensa che i bassorilievi fossero una sequenza scenica posta alla base di un sarcofago. Dalla stessa area provengono due frammenti di colonna di marmo cipollino (le cave dell’importante prodotto marmoreo si trovano nell’isola di Eubea, in Grecia), un capitello di marmo bianco ed una base di colonna. Ultima testimonianza sono i resti splendidi che sottolineano ancora una volta l’importanza del sito e che il Prof. Zucca nella suddetta opera cosi descrive: “Il secondo sarcofago, conservato in un frammento della parete, era decorato da una raffigurazione di thiasos marino, residua di una Nereide ignuda, adagiata su un toro marino dalla lunga coda pisciforme”, databile alla fine del  II secolo. 

La ricchezza della villa di Sa tribuna, oltre che dai suoi marmi, è data sicuramente dalla vasta estensione terriera, oggi apparentemente spoglia, ma a suo tempo ricca, sicuramente di produzioni cerealicole, olearie e  allevamento. La presenza ad occidente della villa, non molto distante da essa, di un vasto insediamento abitativo, evocato dallo stesso toponimo “Biddazzôi”,  ci fanno pensare ad vasto latifondo con maestranze e famiglie, che accudivano tutte le attività produttive.

Infine anche il toponimo Sa Tribuna (la tribuna) o Sa Duana (la dogana), come alcuni riportano, ha creato non poche discussioni e posto interessanti interrogativi. Presi alla lettera i due toponimi farebbero pensare alla sede di un istituto giuridico romano, ma non avrebbe senso, vista la vicinanza della città di Neapolis, dove è probabile la presenza di una tribuna, dove parlavano i tribuni (i funzionari), o della dogana, vista l’esistenza del porto. Altri attribuiscono il significato alla possibile presenza di una basilica, dove, all’interno di un’abside è posizionato un palco sopraelevato per le autorità. Ma anche tale ipotesi sembrerebbe poco pertinente.

L’unica ipotesi praticabile, in assenza di maggiori conoscenze, potrebbe trattarsi di una villa di proprietà di un magistrato  o di un appaltatore, chiamati anche repubblicani, provenienti dalla classe dei cavalieri, che esercitavano i servizi doganali.

Villa rustica “Coddu Acca Arramùndu”

La villa di Còddu Acca Arramùndu è collocata sull’estuario del rio Saboccu, su un dolce colle che domina lo stagno di San Giovanni. La più prossima alla città di Neapolis, con il suo latifondo che si estendeva a mezzogiorno ed era compreso tra quello che fa capo alla villa di Sa Tribuna e il suburbio di Neapolis, dove  Rutilio Tauro Emiliano Palladio, un ricco proprietario terriero, nonché autore del trattato agricolo “Opus agriculturae o De re rustica”, nel V sec. d.C., pose in produzione un’importante piantagione di cedri. Anche Palladio pare che detenesse una villa marittima, in quanto le cedraie preferirebbero i terreni sciolti e sabbiosi, tanto che il prof. Zucca ipotizza la villa palladiana e le sue preziose produzioni lungo la costa sud orientale del golfo di Oristano.

Questa posizione allontanerebbe l’idea che la villa essendo la più prossima alla città, potesse in qualche maniera farci pensare alla residenza  dell’agronomo Palladio.  Certo è che ci troviamo di fronte ad una probabile villa di particolare interesse, perché il complesso edificio, di cui si intravedono alcune murature fronte  stagno, se pur limitata nelle emergenze murali, ha restituito, a detta del Prof. Cornelio Puxeddu, anche delle tegulae hamatae, che farebbero presupporre che il complesso fosse dotato di un impianto termale, ma attualmente ciò che caratterizza questo misterioso sito romano è dato da diversi ritrovamenti  fittili di bollati di fabbrica. Questi laterizi secondo la storiografia provengo da Roma o dalla campagna romana, dove insistevano importanti depositi di argilla sfruttati per la produzione di terrecotte e laterizi. Le diverse tipologie di bolli rinvenuti a Còddu Acca Arramùndu, sono stati oggetto di studio e posti a confronto con altri rinvenuti a Cagliari, Olbia e Decimomannu, nella pubblicazione del 1980:“I Bolli laterizi urbani della Sardegna”, in Archivio Storico Sardo, dal Prof. Raimondo Zucca, che così nella conclusione si legge:

La Sardegna ha restituito in complesso diciannove tipi di bolli laterizi appartenenti, con sicurezza, a figlinae urbane; di questi, nove sono attribuibili al I secolo d. C.  e dieci al II.

Bolli laterizi Urbani di Coddu Acca Arremundu

Le località interessate dalle importazioni di tali laterizi sono: Carales (Cagliari), otto tipi; Guspini – loc. Coddu de Acca Arramundu, sette tipi; Olbia, quattro tipi e Decimomannu, due tipi.

Relativamente alle strutture edilizie di appartenenza si osservi che i laterizi urbani sono stati utilizzati in una villa(?) (Guspini, sette tipi), in un acquedotto (Cagliari e Decimomannu, quattro tipi), in un edificio termale (Olbia, un tipo), in domus urbane (Cagliari, un tipo; Olbia, un tipo), in tombe (Decimomannu, un tipo; Olbia, un tipo), in un edificio urbano (Olbia, un tipo); di quattro laterizi bollati, infine, non si possiedono dati per attribuirli a strutture determinate .

Un rilevante interesse sia per la varietà di tipi di bolli, sia per la quantità di laterizi urbani (tenuto conto che i quarantotto bolli rinvenuti finora appartengono ad età domizianea ed al principio del periodo traianeo in cui il rapporto fra mattoni bollati e non è all’incirca di uno a dieci  presenta la villa (?) di Coddu de Acca Arramundu (Guspini) per la quale si può affermare quanto ha osservato M. Steinby di una villa presso Tagiura (Tripoli): «la grande massa di sesquipedali è chiaramente stata portata da Roma appositamente per la costruzione (i bolli sono cronologicamente molto vicini e vengono quasi tutte dalle stesse figlinae o portus).

Il motivo del trasporto del materiale da Roma e non da luoghi di produzione più vicini dovrebbe comunque essere lo stesso che condusse l’opus doliare urbano sul resto della costa africana: le navi dovettero avere un carico anche al ritorno da Roma». Evidentemente il committente dei laterizi urbani di Coddu de Acca Arramundu dovette essere un personaggio di rilievo; purtroppo non si posseggono finora per il territorium Neapolitanum testimonianze letterarie o epigrafiche relative a proprietà imperiali o private nell’alto Impero.

In copertina: Colle della villa Coddu Acca Arremundu – foto di Clemente Muntoni

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