L’isola sacrificata. Rinnovabili in Sardegna: necessità o volontà di sfruttamento?_di Pier Francesco Lostia
Le foto a corredo di questo pezzo, rendono probabilmente superfluo l’articolo stesso. Niente ideologie o tifoserie, in queste righe. Sappiamo delle dilaganti proteste contro gli ettari di pannelli fotovoltaici e le gigantesche torri eoliche. Proviamo però, partendo dal passato, a farci una idea della questione basandoci su logica e osservazione asettica dei fatti.
In apertura, una foto ritrae il paesaggio mozzafiato del fiume Cedrino. Il nostro sguardo si perde lontano, sullo sfondo, fra le montagne del Supramonte.
Il riscatto di un’isola
Questo paesaggio, come è noto, rappresenta la Barbagia, cioè quella parte della Sardegna che meglio ha preservato la natura dagli scempi perpetrati da certi uomini. L’immagine, però, è molto di più. Simboleggia la piena maturazione di un popolo che ha scelto di riesaminare con oggettività i mali del passato. Ha riconosciuto i torti subiti, per poi liberarsene. Ha rinunciato a dare colpe all’esterno, pur avendone ben donde, per riappropriarsi del proprio destino. Il Supramonte è oggi fonte di ricchezza, vessillo identitario e motivo di collaborazione fra le comunità che ne fanno parte. Sono numerose le realtà locali che si avvalgono dei luoghi incantevoli della Barbagia per fare occupazione, benessere e promozione turistica. E al contempo, protezione ambientale. Sono le comunità ad avere coscienza che tutto il loro presente e futuro, nonché il passato, sono racchiusi in questi luoghi incontaminati. Negli ultimi anni, seppure con fatica, la Sardegna ha iniziato, specie nel centro e nord Sardegna, a superare l’assurda dicotomia fra coste e zone interne. Oggi, i più sono coscienti di una interdipendenza che porta crescita a chi se ne fa carico, lavorando per una politica che mette a sistema le risorse ambientali dell’isola. Il turismo, in tutte le sue declinazioni, è un tutt’uno. Così la produzione enogastronomica, le scelte urbanistiche e le decisioni volte a favorire l’arrivo in Sardegna di un settore produttivo a scapito, per modo di dire, di un altro, sono o dovrebbero essere parte di un disegno di sviluppo complessivo e coerente: tutelare la natura, unica vera ricchezza di questa isola magica.
Gli esiti
I risultati più tangibili della nostra parziale scelta di sviluppo sostenibile, con le risorse del territorio al centro di ogni ragionamento, si colgono specialmente in Gallura. Cioè nel territorio sardo che per secoli, è bene ricordarlo, è stato il più povero e spopolato dell’isola. Altrettanto importante è ricordare che, nei decenni in cui buona parte della Sardegna si faceva sedurre dall’industria pesante, la Gallura sceglieva il turismo sì, ma con una idea di sviluppo ambientalmente sostenibile che, da vent’anni e più, dà frutti significativi e crescenti. A seguirla da vicino, pur con le sue problematiche di isolamento, la Barbagia. Un territorio quest’ultimo che, ribaltando le logiche da turismo agostano “mordi e fuggi” degli anni 80 del 900, ha voluto investire sull’ambiente, sull’archeologia e su tutto quello che le comunità locali possono far conoscere, apprezzare, gustare e giungendo a stagioni lunghe anche sette o otto mesi all’anno.
In altre parole, pur in un sistema nazionale che li esclude dalle decisioni che contano, i sardi hanno saputo badare a sé stessi e al proprio ambiente.
Le promesse del passato
Tralasciando il fallimento dell’industrializzazione del Sulcis, di Ottana, di Macchiareddu e di altre località, pur nella buona fede di taluni (ma non di tutti) di coloro che la propugnarono, sono numerose le occasioni in cui altri hanno preteso di decidere al posto dei sardi, cosa fosse meglio per loro.
Pensiamo alla stagione in cui si è cercato di imporre l’idea che la Sardegna dovesse diventare una riserva naturale statale, con una gestione esterna all’isola. Dinanzi alla perplessità e poi contrarietà delle comunità rispetto a pianificazioni calate dall’alto, si è parlato di un’isola chiusa, ostile al mondo. Asserzioni tanto fondate, che oggi persino la Barbagia, indicata come la più riottosa dinanzi al cambiamento, ha un’area naturalistica già molto nota, Tepilora. Vi sono poi le aree marine di Tavolara, Porto Conte, La Maddalena, la penisola del Sinis e di Villasimius. Ciascuna di loro cresce e fa fiorire progetti di sviluppo economico, culturale e scientifico per i territori di riferimento. Questo perché sono le comunità locali, assieme ai propri amministratori, a prendersi cura del patrimonio naturale custodito per secoli. Di contro, se pensiamo alla proposta con cui si è cercato di imporre un parco nazionale del Gennargentu, cioè proprio in quei territori montani ritratti nella nostra foto di apertura, forse in troppi hanno scordato che si ipotizzò l’inserimento nei confini del parco, fra le altre, di località come la vallata di Oddoene, ricadente nel Comune di Dorgali. E per chi non lo sapesse, parliamo di una area molto fertile, di una realtà agricola fra le più fiorenti di tutta l’isola, la cui dismissione avrebbe avuto effetti negativi per molti. Eppure, dopo il pesante no giunto fino a Roma, la Barbagia è andata oltre. Dalla metà degli anni 90 del 900, le comunità si sono rimboccate le maniche. Hanno fatto loro stesse, con risultati ammirevoli e senza attendere chicchessia, una immensa valorizzazione delle proprie ricchezze ambientali.
Le promesse dell’oggi
Bando alle ideologie, alle contrapposizioni da tifoseria, abbiamo scritto all’inizio. Siano i fatti a dirci che cos’è quest’ultima offerta che si vuole imporre all’isola. Energia pulita, sostenibile, che rispetta l’ambiente. Niente da eccepire. A parte il fatto che le cose, non è un’opinione, stanno diversamente. Vi sono innumerevoli località dove le distese di pannelli fotovoltaici hanno soppiantato i terreni coltivati. Terreni distolti, in vario modo, alle cure di chi se ne occupava.
In auto, in viaggio attraverso l’isola, è facile imbattersi in rumori molesti, difficili da identificare con immediatezza. Basta una domanda, magari posta a un gruppo di persone che si trovano in un locale dove ci fermiamo per mangiare un boccone, per sapere cosa accade.
«Guardi là, se vuole conoscere la fonte di questo rumore». E di fronte al nostro sbigottimento, alla vista di una pala eolica gigantesca, che prima non avevamo notato perché a diversi chilometri dal nostro punto di osservazione, qualcuno aggiunge sconfortato:
«E non ha idea di quanto fa impazzire gli animali. Anche le piante sembrano contorcersi, quando le pale sono grandi e potenti. E l’effetto sulle persone glielo lascio immaginare. Lei è qui da 10 minuti, ma si immagini come starebbe a sentirlo tutti i giorni questo rombare».
Senza dimenticare, aggiungiamo, gli alberi sacrificati, maciullati, per far spazio a questi estranei. È impossibile non correre col pensiero al selvaggio taglio d’alberi cui la Sardegna fu sottoposta nell’800, solo per soddisfare i bisogni industriali del Piemonte. E a questo punto, persino chi è poco incline alle tesi indipendentiste, deve ammettere di essere dinanzi all’ennesimo, maldestro tentativo di colonizzazione della nostra terra. Poco cambia se chi lo attua è o meno in buona fede. Le promesse fatte ai sardi sono sempre le stesse. Un futuro radioso, ricchezza per tutti. Guardando ai guasti del passato, non sembra un azzardo prevedere un ennesimo scempio.
L’impellente bisogno di moltiplicare i nostri no è dettato non dal fuoco dell’ideologia, ahimè. Piuttosto, è la fredda logica a imporci di gridare il nostro dissenso. No perché, come in passato, possiamo salvare noi stessi e la Sardegna.