Storie di donne e d’acqua_di Tarcisio Agus

In questo mese di marzo ricade la festa della donna e la giornata mondiale dell’acqua. Vorrei celebrare queste due ricorrenze attraverso il ricordo di un recente passato di sofferenza e di vita di donne, che nonostante tutto sanno guardare con fiducia e determinazione oltre l’orizzonte.
Cernitrici
Anche noi abbiamo fatto la storia
il nostro contributo
di fatica e di sofferenza
di sacrificio e
di coraggio,
di solidarietà e di amore,
ha dato al duro lavoro di miniera
un volto di dignità e umanità
che solo noi donne
sappiamo portare ovunque.
Con la lettura della poesia di Iride Peis il pensiero corre al tragico avvenimento del 4 maggio 1871 nel cantiere Azuni della miniera di Montevecchio, che ebbe come protagonisti l’acqua e 11 donne.
Oggi il sito in cui avvenne il più grave incidente mortale di donne dell’era industriale si sta trasformando, quella ferita ormai rimarginata sta lasciando il posto alla natura selvaggia che si riprende i luoghi della storia, comprese le modeste baracche dove le donne stanche e provate dal duro lavoro cercavano ristoro. Ignare del dramma, d’improvviso alle 18,40 del pomeriggio il serbatoio d’acqua di 80 mc cedeva di schianto travolgendo la baracca e le esauste donne.
Buona parte delle cernitrici erano giovani ragazze comprese fra i 10 e 15 anni, impegnate in un duro lavoro di 12 ore nei piazzali a bocca di miniera, intente a separare manualmente la ganga (la roccia) dal minerale senza alcuna protezione. Le polveri che ne scaturivano intaccavano la loro salute e le loro esili mani divenivano ogni giorno sempre più secche e irritate, con l’alto rischio di dolorose ferite. Non lo erano da meno neanche i piedi, solitamente nudi, in particolare quelli delle donne addette ai crivelli (setacci), che all’aperto sotto traballanti tettoie effettuavano il processo successivo alla cernita in grossi tini ricolmi d’acqua, separando i minerali sterili da quelli utili per decantazione. Il continuo traboccare d’acqua con il movimentare dei setacci rendeva il luogo di lavoro fangoso e pericoloso, l’unica difesa era risposta nelle rudimentali fasciature agli arti, spesso sanguinanti e dolenti.
Nove donne provenivano dalla cittadina di Arbus, Armas Antioca di anni 32, Murtas Luigia 27, Vacca Luigia 15, Melis Anna 11, Aru Elena 10, Atzeni Anna 12, Pusceddu Caterina 10, Peddis Anna 14, Pusceddu Anna 14 e due provenivano da Guspini, Gentila Rosa anni 15 e Vacca Rosa, la più anziana, 50.
Il tragico evento che sembrava inghiottito dall’oblio è stato riportato all’attenzione dell’opinione pubblica dalla poetessa guspinese Iride Peis, che ha insegnato nella frazione mineraria di Montevecchio ai bambini delle scuole elementari. Ripercorrendo la storia delle donne di miniera, Iride si spende con le sue opere e la sua testimonianza per non dimenticare, portando a conoscenza delle nuove generazioni la dura esperienza lavorativa delle donne, in particolare nel mondo virile minerario.
Vicissitudine narrate attraverso numerose opere, come: Donne e bambine nella miniera di Montevecchio; Le Janas di Montevecchio; Montevecchio; Gente di Miniera; Voci di Donna; Contus in Poesia, etc.
Iride, con diverse altre donne guspinesi (Carmen, Isa, Franca, Clelia, Graziella, Simona, Carla, per citarne alcune) oggi impegnate nel volontariato, potremmo dire, rappresentano la continuità di un mondo femminile minerario ed agricolo, che nel dopoguerra si organizza spontaneamente sotto la denominazione “Noi Donne”, sulla scia del settimanale omonimo nato a Parigi e diffuso in Italia dalla senatrice Nadia Gallico Spano. Nel 1939 la Gallico sposava Velio Spano, guspinese d’adozione e importante dirigente comunista, inviato a Tunisi nel 1938 per rafforzare l’attività antifascista e dove conobbe Nadia Gallico, nata a Tunisi da una famiglia di emigrati italiani, impegnata nel movimento antifascista tunisino. Militante nella Resistenza durante la l’occupazione della Francia, fu condannata per attività politica ma continuò la sua lotta in clandestinità sino all’Italia liberata, quando ricevette da Palmiro Togliatti l’incarico di dar vita al movimento femminile e stendere il piano di lavoro per l’Italia.

A Guspini Nadia ci veniva volentieri non solo perché moglie di Veglio Spano, ma perché nel paese minerario nel 1945 trovò il movimento femminile ispirato dal suo settimanale, che l’accolse con calore ed ammirazione. L’azione delle donne guspinesi, capeggiate dalla bracciante Agnese Liscia, al fianco dei minatori si battevano per la parità dei diritti con l’uomo, la richiesta degli asili nido, di scuole materne e dell’assistenza medica.
Nel 1946 Nadia venne eletta all’Assemblea Costituente, a Guspini ed in Sardegna era attiva nelle battaglie con le donne contro la chiusura delle miniere e per il riscatto delle terre, ancora in mano baronali. La senatrice tunisina ha voluto render omaggio alle donne guspinesi poco prima della sua morte, facendo visita ad Iride ed Agnese, ed incontrando alcune delle altre reduci dell’importante esperienza di aggregazione politica e sociale. Nelle giornate di permanenza a Guspini, ricorda Iride, riemersero molti aneddoti sulle sue concittadine che Nadia amava, per la tenacia e per le importanti rivendicazioni e battaglie condotte. In particolare ricordò il loro affetto e sostegno, quando, con il capo coperto dai fazzoletti bianchi e marron, le militanti occupando i gradini riservati alle autorità, la attorniarono e sostennero nel suo primo comizio ufficiale dai gradini della parrocchiale. I gradini del duomo di San Nicolò erano il palco naturale di esclusivo uso dei politici, sindacalisti e delle importanti personalità, compreso suo marito, che sovrastavano l’ampia piazza XX settembre dove si radunava il popolo astante. In quel periodo si trattavano le politiche sociali e sindacali, che andavano addensandosi sulla miniera di Montevecchio con l’imminente e avversato “Patto Aziendale”. Dal 1949 al 1961 l’iniquo accordo imposto unilateralmente impedì ai minatori ogni sorta di azione sindacale e di protesta, pena il licenziamento.

Quella esile figura femminile, che sfidò il potere egemone maschile nelle rivendicazioni sociali, rimase impresso nelle guspinesi tanto che furono proprio le donne locali, il 17 marzo del 1961 a porsi a capo delle manifestazioni che andavano increscendo per l’abolizione dell’ingiusto strumento giuridico. Da troppo tempo rendeva sottomessi gli operai, le donne ed i bambini che lavoravano senza potersi assentare neanche in caso di malattia. Per 17 giorni le donne si organizzarono nel sostegno alla lotta e nel supporto logistico ai loro mariti, fratelli e compagni, che si erano barricati occupando il sottosuolo.

Non fu facile sostentare 1500 operai in occupazione, in particolare far pervenire loro cibo ed acqua, ingannando i sorveglianti che tentavano di isolare le maestranze chiuse nel sottosuolo, ma le conoscenze delle cernitrici, delle addette ai crivelli e dei ragazzi, utilizzati spesso per portare l’acqua agli operai impegnati nei cantieri sotterranei, contribuirono a raggiungere l’obbiettivo, dando forza e resistenza agli scioperanti. Non da meno furono le iniziative a sostegno dell’importante manifestazione sindacale all’esterno dei cantieri occupati, come quando il 20 marzo le forze dell’ordine, chiamate per sgomberare i pozzi, furono impossibilitate ad avvicinarsi alla miniera da un cordone di donne, bambini, disoccupati e commercianti chiamati a bloccare la strada di accesso che da Guspini conduce a Montevecchio. Per la prima volta in Italia la polizia, che controllava l’azione di protesta con un elicottero, nel tentativo di sciogliere la manifestazione fece uso dei lacrimogeni, con il ferimento di alcune donne. Nonostante la paura e la grande apprensione per le donne ferite la manifestazione non si sciolse, costringendo le forze dell’ordine alla ritirata. Due gironi dopo la lotta le donne vennero premiate con l’intervento del presidente della regione Sardegna, che avviò le trattative mettendo fine all’odiato “Patto Aziendale”.
Immagine di copertina: cernitrici.