La fucina nuragia di Montevecchio: Conch’è Mosu_di Tarcisio Agus

In un’area a forte connotazione semitica, data dai toponimi di Genna Serapis (Passo di Serapide), Monti Jana (Monte di Diana) e Punta Malacuba ( Da Malakbel – divinità del sole), ha origine il più lungo filone minerario della Sardegna che coincide con l’inizio della Metalla romana, non poteva non trovarsi un chiaro riferimento anche al mondo cristiano, dove i seguaci di Cristo sappiamo essere stati, in particolare nel III secolo “dannatio ad metalla” (condannati alle miniere). Per quanto riguarda Montevecchio levante, le testimonianze romane non mancano, fu sicuramente interessata ad ospitare i detenuti, cristiani e non, che giungevano da Roma o dall’Africa attraverso il porto di Neapolis. Nell’ingresso all’ampia area mineraria troviamo la località Conca de Mosu (Conch’è Mosu), letteralmente “Testa di Mosè”, nel nostro caso il termine “Conca” significherebbe “Valle”, mentre il sardo Mos(u) dovrebbe derivare dal latino Moses o dall’ebraico Mõsheh, per cui potremmo dire di trovarci nella valle di Mosè.
Per alcuni studiosi il nome Mosè trae origine dalla radice ebraica eshah, che significa “estrarre o tirar fuori”. Inoltre dalla Bibbia sappiamo che Mosè venne chiamato da Dio per liberare il suo popolo dalla schiavitù, sicuramente a Conch’é Mosu gli schiavi cristiani o forse anche ebrei che vi lavoravano, hanno avuto buone ragioni per intitolare al principe d’Egitto il luogo di espiazione della loro condanna.
Nell’area di Conch’é Mosu, su un dolce colle che si eleva a quota 234 metri s.l.m, sorse un’importante centro metallurgico che il CNR (Centro Nazionale Ricerche) di Roma indagò nel 1996, definendolo importante area fusoria, in particolare per la presenza in situ di elementi di fornaci come le tuyeres, tubi ceramici refrattari per l’introduzione dell’area controllata nella fornace, nonché, con le scorie, vennero recuperati anche parti di fusione entro frammenti di matrici in terracotta, simili alle matrici della capanna n. 4 di Santa Anastasia a Sardara, datate al IX-VIII sec. a. C.
L’elaborato tecnico del CNR riporta inoltre le analisi effettuate sulle scorie raccolte in superficie e datate tra il IV a.C e III d.C, certificando che in quella lunga fase storica il principale processo di coppellazione (separazione dei metalli nobili) era quello dell’argento. Prezioso metallo bianco di vasto interesse sia nel mondo punico che romano, in particolare per Roma l’argento divenne fondamento dell’economia rappresentato dal Denario, prima moneta d’argento coniata nel 211 a.C.
L’importate scoperta, che stabiliva a Montevecchio il primo centro in Italia della lavorazione dell’argento, venne completata con una serie di analisi chimico fisico delle scorie, costituite in particolare da silicati di zinco, di piombo, di ferro, di calcio, di bario e da solfuri di piombo, di rame e di ferro. Tutti questi elementi richiamano i componenti chimico fisici presenti nelle panelle del carico nuragico di piombo e stagno recuperate nel 1982 nel mare arburese, in regione Domu de S’orku, a significare forse, i dati non furono mai incrociati, che il giacimento minerario poteva essere lo stesso, anche se la datazione delle scorie di Conch’è Mosu non coincidevano. Il prof. Giovanni Ugas, che seguì il recupero di Domu de S’orku, datò il carico al IX-VIII sec. a.C., asserendo già da allora che i preziosi manufatti fossero di origine indigena e stessero partendo dalla Sardegna. I reperti di Domu de S’orku vennero analizzati per la prima volta il 31 gennaio 1985 nei laboratori della miniera di Montevecchio ed una panella del carico, di tipo piano convessa dalle dimensioni di cm. 27,80 per 23,50, con spessore cm.7,00 e del peso di 12,515 kg, diede la seguente composizione: 64,05 % di Pb; 2,040 di Al; 0,005 di Fe; 0,650 di Sb; 0,090 di Cu; 0,380 di Mg; 0,320 di Na; 0,001 di Mn; 0,350 di Bi; 0,009 di Ag; 0,810 di Zn; 12,400 di Sn e il 18,50 % di altri componenti.


Successivamente nel 1997 l’interesse sul carico di Domu de S’orku fu oggetto di studi dell’Harvard University di Cambridge:“I lingotti di piombo e stagno raccolti sono caratterizzati da forma diversa, lastre di forma piano convessa e abbastanza rettangolare di peso compreso tra 1 e 18 kg. Vale la pena notarlo rarissimi sono i ritrovamenti di metallo di stagno, in Sardegna e altrove, e rarissimi i lingotti di stagno anche nel bacino del Mediterraneo. Infatti, i lingotti di stagno o altri oggetti metallici di stagno a noi noti, sono stati rinvenuti solo in pochi siti come Port-Vendres (Francia), lungo la costa della Palestina, in Sardegna nei pressi di Capo Bellavista e ora alla Domu de S’orku. La composizione chimica dei lingotti di piombo hanno dimostrato che il contenuto di stagno varia dallo 0,85% in peso a circa il 12,4%, lo zinco dallo 0,02 allo 0,81%, antimonio dallo 0,30 allo 0,80%, argento, rame, manganese, ferro e il bismuto sono inferiori allo 0,4%. … Al fine di localizzare le risorse di minerale metallico sfruttate producendo i lingotti di piombo e stagno, per il metallo è stata effettuata l’analisi degli isotopi del piombo manufatti da confrontare con i dati dei giacimenti di minerali di piombo e stagno. Sfortunatamente, i dati per questi ultimi non sono completi in letteratura, e alcuni importanti giacimenti di stagno della Spagna e la Sardegna non sono ancora stati studiati. Con questo obiettivo in mente sono stati realizzati i giacimenti di minerale di stagno della Sardegna campionati e determinati i rapporti isotopici del piombo. I giacimenti di stagno della Sardegna si trovano entrambi sulla parte sud-occidentale dell’isola a Villacidro e a Punta Santa Vittoria e non lo sono distante dal bacino di Montevecchio, dove si produceva piombo e argento in epoca punica e romana è già stato stabilito”. …
La puntuale relazione si chiudeva con la seguente considerazione: “L’analisi degli isotopi del piombo per i lingotti di metallo ha dimostrato che i lingotti di piombo e stagno non sono stati ottenuti dalla fusione di minerali di piombo e stagno dal Regno Unito e potrebbero essere prodotti in Sardegna”.
Quest’ultima affermazione oggi trova piena conferma nella donazione al Museo Arti e Mestieri Antichi della Sardegna di Arbus, della famiglia di Erminio Corda, già tecnico della miniera di Montevecchio, di una panella metallifera recuperata diversi anni fa in regione Conch’é Mosu.

Grazie alla sensibilità ed all’alto senso civico del Rag. Antonio Corda, titolare del museo arburese, ho avuto modo di prendere visione dell’interessante reperto piano convesso, quasi circolare, dalle dimensioni di 30 x 27 cm, con un’altezza di circa 8 cm e del peso di 14,50 kg. Il mio pensiero corse immediatamente all’impressionante similitudine con la panella n.2 del carico nuragico di rio Domu de S’orku. L’identica forma a conchiglia della donazione, le sue dimensioni di cm. 27,80 per 23,50, lo spessore di cm.7,00 ed il peso di 12,515 kg., non possono essere una casualità, se si tiene conto che la panella di rio Domu de S’orku, essendo stata in mare per circa 3000 anni, ha perso della sua consistenza iniziale, per cui si può sicuramente affermare, anche in attesa di una verifica scientifica, che ambedue provengono dalla stessa fucina nuragica e nel caso specifico dalla regione Conch’é Mosu di Montevecchio. Fucina che ebbe lunga vita fin dall’Età del Ferro, se non ancora prima vista la presenza dei protonuraghi di Narinu e di Cugui, che potevano controllare l’ingresso alla vasta area mineraria di Montevecchio.
Le panelle recuperate potrebbero definirsi un “prodotto semilavorato”, per le indubbie caratteristiche chimico fisiche dei materiali contenuti, destinato alla commercializzazione per seconde e terze lavorazioni nelle fucine dell’isola o d’oltre mare.
L’area di levante a Montevecchio è considerata la più ricca di minerali come la Galena (solfuro di piombo) dal quale si ricava piombo, argento ed una percentuale d’oro; la Calcoprite (solfuro di rame, ferro e zolfo) dal quale si ricava rame e ferro o la Blenda (solfuro di zinco) dal quale si ottiene lo zinco, per citarne alcuni. Evidentemente i ricercatori dell’università americana non conoscevano a fondo le mineralizzazioni di Montevecchio, perché lo stagno, componente significativo delle panelle, era presente a Montevecchio attraverso i depositi di Cassiterite (biossido di stagno), andati distrutti nelle escavazione degli strozzi (filoni emergenti) in quanto non interessati alla produzione di piombo e zinco. Inoltre l’ing. Giuliano Marzocchi, già direttore della miniera di Montevecchio, nel suo libro “Cronistoria della miniera di Montevecchio” ci svela dove i nuragici potevano recuperare altro stagno: “Nulla è pervenuto che attesti la presenza di minatori nuragici a Montevecchio. Costruzioni del tempo, anche di rilievo, non mancano nella zona; un indizio che i nuragici potessero conoscerla può essere considerato il fato che il bronzo dei loro “bronzetti” ha un certo tenore di piombo ed è noto che nelle parti alte e altissime di Montevecchio la galena era stannifera: non si può quindi escludere che lo stagno di quei bronzetti provenisse da quella galena, anche se allo stato delle conoscenze attuali nessun collegamento è possibile.”
In copertina una panoramica di Conca de Mosu – Montevecchio – foto di Clemente Muntoni