Novembre 18, 2025

La mitologia nel paesaggio_di Tarcisio Agus

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arcuentu

In ogni parte del mondo possiamo trovare dei luoghi che richiamano antichi miti, come per esempio la Sardegna in un recente passato fu portata agli onori della cronaca per essere accostata ad Atlantide, il mito dell’isola leggendaria narrata dal filosofo greco Platone.

Anche nel paesaggio a noi vicino sono presenti miti e leggende che narrano di divinità o di personaggi malvagi.

Fra i tanti monumenti naturali di cui il nostro territorio dispone, senza ombra di dubbio quello che più di ogni altro si può considerare rappresentativo nel tempo è il monte Arcuentu.

La mitica montagna, che sovrasta con i suoi 736 metri sul livello del mare, è perfettamente visibile da lunghe distanze, dal mare di Sardegna e dalla vasta pianura del Medio Campidano.

Caratterizzato dal suo profilo antropomorfo ha senza dubbio attratto l’attenzione dell’uomo, che ha abitato o transitato al suo cospetto, sin dal Mesolitico (10.000 – 8.000 a.C.). Presenza certificata nel territorio nell’area detta del rio Domu de S’Orku (litorale arburese).

Questa nostra montagna non poteva non  essere considerata sacra dalle antiche genti ed il Dio che vi regnava, sicuramente era quello venerato nel tempo.

Anche noi oggi, pur avendo lasciato alle spalle i dei pagani, i miti e le leggende, quel profilo lo accostiamo ad uno storico personaggio, Napoleone dormiente.

Per cui nulla ci vieta di pensare che quella rappresentazione naturale nel periodo Mesolitico, ma più marcatamente nel Neolitico, poteva essere accostata al volto della “Dea Madre”, simbolo di vita, morte e rinascita, legata al sole, alla pioggia ed ai fenomeni naturali.

L’antico culto universale della divinità femminile è richiamato dal prof. Goivanni Lilliu nell’opera “La Civiltà dei Sardi”: “Figura centrale e principale, onnipresente e onnipotente, d’un nascente e nebuloso politeismo a sfondo feticistico-animistico, è quello della Grande Madre, detta anche dea nuda o dea degli occhi, di origine orientale (mesopotamica-anatolica), di diffusione panmediterranea, atlantica e, per quanto pare, anche oceanica-americana”.

La venerazione della “Dea Madre” si è protratta per oltre quattro mila anni, trasformandosi poi, per l’arrivo nell’isola di nuove genti e culture diverse,  da divinità femminile in  maschile, che i romani chiamarono“Sardu Pater”. Esattamente non sappiamo come veniva chiamata la divinità del Dio dei sardi, ma il titolo romano richiama la venuta in Sardegna dei “pastori guerrieri”, che contribuirono  a diffondere nell’isola la forma patriarcale della società. Il capo famiglia era il padre,che noi ancora oggi chiamiamo con gran rispetto“Babai”, titolo che ritroviamo  nel tempio di Antas, con “Sid Addir”, figura composta da “Sid” divinità legata alla caccia e “Adir Babay” padre potente, poi “Sardus Pater” da i romani, (divinità guerriera e cacciatrice). Interessante potrebbe risultare quanto detto dal prof. Lilliu  riguardo al Dio dei sardi ed all’area della sua venerazione:“Sardus Pater era il Baal dei Sardi, e dei sardi dell’Ovest dell’Isola, cioè dei Sardo Punici, un nume di sostanza e di aspetto stranieri, siro-cartaginese”. Allo stato attuale non risulta esservi ad Antas un tempio nuragico, ma una necropoli sulla quale venne eretto il tempio fenicio-punico nel V a.C, e sovrapposto poi da quello romano nel II a.C. Gli unici edifici religiosi e noti dei nuragici in tutta l’isola  rimangono i templi a pozzo, dedicati al culto delle acque.

Moneta del Sardus Pater del sacello di Arcuentu

Pertanto in assenza di certezze potremmo utilizzare il percorso logico interpretativo dell’archeologo britannico Colin Renfrew, per la riconoscibilità dei luoghi di culto preposti ad una divinità in assenza di carenza di fonti. Al primo posto del suo scritto dal titolo “Concentrazione dell’attenzione”, Colin riporta: “Il rituale si può svolgere in un luogo caratterizzato da speciali associazioni naturali (ad esempio una grotta, un boschetto, una sorgente, la cima di una montagna)”, per cui nell’ovest della Sardegna, presumibilmente in quel periodo, per venerare il Dio padre dei sardi non c’era la necessità di erigere un tempio perché il luogo di culto lo aveva già creato la natura.

Gaio Sallustio Crispo (86 a.C. – 34 a.C) fu la prima fonte letteraria a parlare del “Sardus Pater”, che lui definiva figlio del dio Makeris, riconosciuto come il dio libico-egizio Melkart- Ercole, Dio guerriero e cacciatore, spesso raffigurato con una copricapo piumato, come nelle monete romane del I secolo a.C. La gente del territorio che ogni giorno poteva volgere lo sguardo sulla montagna non faceva certo fatica a riconosce in quel profilo umano della montagna l’ideale raffigurazione del Dio guerriero e cacciatore, con il suo copricapo piumato, dato dal fitto bosco della sommità che ancora si conserva. Così, in fase punico e romana, l’Arcuentu continuava ed essere un luogo di culto  ora intitolato al Dio Erakle – Ercole, figlio di Zeus, il sovrano dell’olimpo.

La notorietà del dio guerriero, della sua forza e delle sue gesta, si diffuse in tutto il mediterraneo dal VIII a.C., e certamente  anche tra le popolazioni che abitavano il territorio, dove potevano ritrovarsi  molti simboli che richiamavano le gesta del mitologico eroe, a cominciare da quelli del padre Zeus: il toro, l’aquila, la folgore, la quercia e l’ulivo.

La certezza della sua venerazione ci è data dal ritrovamento, nella sua cima, di un sacello votivo databile tra il III a.C. e il IV d.C., che ne contemplava l’ascensione  spirituale verso il divino.

Coloro che conoscevano le dodici leggendarie fatiche del dio guerriero, probabilmente potevano immaginare in questi nostri luoghi le imprese che Ercole dovette compiere come penitenza per aver distrutto la sua famiglia, a cominciare dalla prima che ha come scenario una montagna, dove  catturò il gigantesco leone di Nemea, stanandolo nella sua grotta nel monte Treto, mentre nella seconda dovette combattere l’idra di Lerna, un mostro a metà tra un drago e un serpente,  ucciso con  gigantesco masso. Ancora nella terza fatica Ercole insegue per un anno, prima di averla vinta, la cerva Cerinea attraversando montagne scoscese; così pure nella quarta, per catturare l’animalesco cinghiale dovette combatterlo sul monte Erimanto.

Le fatiche previste dovevano concludersi con il salvataggio della mandria di Gerione, la decima, ma Euristeo (Re di Micene ) non ritenendo valide la seconda e la quinta le impose  due ulteriori fatiche.

Nell’undicesima Ercole doveva recuperare i pomi aurei del giardino delle Esperidi, posto alle pendici del monte Atlante.

Per questa impresa chiese aiuto al Titano Atlante, condannato da Zeus  a sostenere sulle sue spalle il peso della volta celeste per l’eternità. Non sapendo dove si ergesse la mitica montagna, chiese aiuto  alla divinità marina Nereo, presso il fiume Eridano, che opponeva forte resistenza ad indicarle la via, ma stretto tra le forti mani dell’eroe cedette. Atlante fu ben felice di aiutare Ercole,  ma questi dovette prendersi il peso del cielo sulle sue spalle sino al suo ritorno.

L’ultima fatica fu la cattura di Cerbero, il cane a tre teste, che custodiva il regno dei morti.

Liberato dalle fatiche Ercole ebbe ulteriori vicissitudini e fra le più importanti si narra della battaglia epica, tra i Giganti, figli della terra e gli Dei dell’olimpo. Per raggiungere la vetta dell’Olimpo i giganti dovettero mettere tre montagne una sull’altra ma furono sconfitti e cacciati sotto l’Etna.  La battaglia fu vinta dagli Dei grazie all’aiuto chiesto al semidio Ercole.

Infine anche la morte di Ercole potrebbe aver  sollecitato comparazioni territoriali.

A levante della montagna Tolomeo ci ricorda, nel II secolo d.C., lo scorrere del fiume sacro, sotto lo sguardo del nostro Ercole.

Lo studioso e scrittore Bartolomeo Porcheddu associa il Sacri fluvii ostia di Tolomeo al  Flumini Mannu (il grande fiume), un tempo chiamato Eridanu o Erriudanu (rio danu), da cui Campidano, il fiume citato  nell’undicesima fatica.

Non è dato sapere se la sacralità del fiume tolemaico sia in onore di Ercole, ma è proprio in un fiume dal nome  Eveno che avvenne l’epilogo  del dio guerriero.

Nella mitologia si narra che Ercole dovendo attraversare il fiume Eveno assieme alla sua seconda moglie Deianira, si rivolse a Nesso il centauro traghettatore, ma questi si rifiutò di trasportarli assieme, così Ercole guadò il fiume da solo. Nesso trovandosi solo con Deianira tentò di rapirla, ma Ercole lo uccise con una freccia. Prima di morire Nesso diede a Deianira il suo sangue intriso di veleno facendole credere fosse un filtro d’amore. Deianira cosparse la tunica dell’eroe con l’improbabile filtro, e quando Ercole la indossò venne colto da atroci sofferenze, non riuscendo a sopportare il dolore si fece costruire una pira sul monte Eta dando fine alle sue sofferenze. Zeus  allora scese dal cielo e lo condusse nell’Olimpo rendendolo immortale.

Questa immortalità del Dio eroe, come avvenuto nel passato, non si trasforma nel successivo periodo storico del medioevo in nuova divinità. Ercole rimane immortalato solo nei documenti  (Mons Hercules, Herculentu o Orculento), eppure con l’avvento del cristianesimo  non mancava certo la similitudine tra il Dio Zeus, che mandava sulla terra suo figlio Ercole per salvare gli uomini e il Dio cristiano che inviava suo figlio Gesù sulla terra per salvare l’umanità. Si interrompe così la successione delle divinità, quel profilo umano non poteva per il cristianesimo essere associato a Dio. I monaci bizantini che si insediarono nel territorio dopo la caduta dell’impero romano per cristianizzare le popolazioni locali, che ancora adoravano le pietre e gli alberi, aderivano al movimento religioso “Iconoclasta” che  vietava l’icona (rappresentazione visiva di una immagine sacra), per evitare che venisse adorata l’immagine al posto di Dio. Per cui, verosimilmente, i monaci dovettero far distogliere lo sguardo da quella possente icona del dio pagano, ma non potevano annullare la sacralità della montagna, come avvenne in molti siti pagani, la montagna rimase sacra ma l’attenzione venne rivolta a ponente sull’arco formato dall’Arcuentu e la cima detta di Arquenteddu (piccolo Arcuentu), sferzato dal vento.

Questo permetteva ai monaci l’attuazione del principio che “Ogni gesto del cristiano doveva essere ispirato dalla parola di Dio”, ossia spigato attraverso le sacre scritture considerate la voce di Dio per i credenti. Quell’ampio arco sulla cima della montagna sacra richiamava l’alleanza tra Dio e l’uomo, spiegata attraverso il passo della Genesi, primo libro della Bibbia (9,16): “L’arco sarà sulle nubi, ed io lo guarderò per ricordare l’alleanza eterna tra Dio ed ogni essere che vive in ogni carne che è sulla terra”. Mentre il vento richiamava lo spirito di Dio che senti ma non vedi, spiegato attraverso il vangelo  secondo Giovanni (3,8): “Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo spirito”.

Con molta probabilità fu questo l’evento che diede il nome attuale alla montagna arco del vento, in latino arcus vents,  da cui in sardo Arcuentu.

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