Luglio 27, 2024

A proposito di ludopatia/Storie vere: Era solo un gioco_di Giorgio Deiana

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L’anno prima si era diplomato con onore da ragioniere, all’età di 18 anni, quando, senza grande concorrenza, venne assunto dalla concessionaria di una casa automobilistica straniera, con ottime prospettive di crescita professionale, anche sotto il profilo economico. Si inserì senza difficoltà nell’ambiente di lavoro. Con i colleghi del commerciale, e con i meccanici dell’officina, negli anni, i rapporti rimasero di colleganza senza trasformarsi in amicizia, né lui fece nulla perché ciò accadesse. Col tempo cresceva il suo rapporto con il titolare, imprenditore vecchio stampo, uomo pragmatico, che considerava i dipendenti suoi figli e li trattava come tali, con la severità di chi, per loro, ha dei progetti, che i figli naturali normalmente non rispettano.

Andrea, così si chiamava il giovane contabile, aveva perso il padre all’età di cinque anni. Di lui non aveva che un vago ricordo, anche perché la madre non amava parlare né del marito né della sua morte, e il bambino, di natura docile, non sembrava curioso di sapere.

Con gli anni Andrea si era reso conto di quanto la madre fosse protettiva e oltremodo rigida con lui: di fatto esercitava un controllo sottile, ma tangibile su quel ragazzo. Non si era risposata e il giovane non ricordava sue frequentazioni maschili.

Già cinque anni dopo l’assunzione, Andrea aveva messo su famiglia con Giovanna, una compagna di scuola e sua vicina di palazzo con la quale dapprima sporadicamente, poi sempre più spesso, all’uscita di scuola, si accompagnava fino al portone di casa della ragazza. Avevano entrambi sedici anni. La giovane era graziosa, dal carattere dolce, bruna, con due occhioni profondi nei quali si era concentrata tutta la sua intelligenza. Solo alla chiusura del quarto anno Andrea, timidissimo, con tendenza ad isolarsi, ebbe il coraggio di dichiararsi, acceso dall’entusiasmo degli ottimi esiti scolastici di entrambi. La ragazza fu colta di sorpresa, arrossì, ma pensò “finalmente”. Tuttavia chiese al giovane qualche giorno per pensarci. Dopo una settimana i due si erano messi insieme. Andrea, a quel sì della ragazza, che a lui parve dolcissimo, non manifestò nessuna evidente reazione che la giovane, seppure leggermente sconcertata, attribuì alla sua naturale introversione. Quando lui tornò a casa si chiuse in camera. Restò muto, come intrappolato in un parossistico rivolgimento interiore, provocatogli da quel sentimento corrisposto. Non se ne coglieva nessuna manifestazione visibile: il suo corpo era semplicemente imploso di gioia. Passarono  diverse settimane prima che Andrea comunicasse la novità a sua madre, che dichiarò le sue perplessità a che il figlio si impegnasse sentimentalmente, così giovane. Ma tutto fini lì, come se la questione fosse stata messa nel congelatore. Alla fine la donna si adattò all’idea, sebbene immaginasse, quando fosse stato il momento, di accogliere la coppia, nella propria casa, per tenere Andrea accanto a sé. Purtroppo la donna ebbe la sventura di morire a metà dell’ultimo anno scolastico. Il figlo visse la morte della madre come un azione crudele consumata contro di lui. Era morta troppo presto, prima che avesse trovato il coraggio di chiederle di raccontargli di suo padre e del vuoto profondo che lo invadeva.

Il ragazzo non palesò il proprio dolore per quella perdita inaspettata. Al ritorno dai funerali, si recò nella camera della madre, tirò fuori da un cassetto la vecchia fotografia incorniciata del padre, che poggiò sul cuscino, si lasciò andare sul letto, strinse a sè la foto e pianse in silenzio tutte le lacrime che aveva trattenuto dai suoi cinque anni.

Giovanna, a due anni dal diploma, fu tra i vincitori di un concorso pubblico.

A quel punto decisero di sposarsi avendo in mente i rituali  progetti della gran parte dei giovani di allora: famiglia casa figli.

Aprirono un conto corrente intestato a entrambi nella banca in cui da anni ad Andrea veniva accreditato lo stipendio e nel quale il giovane aveva depositato, a suo tempo, le somme ricavate dalla vendita della casa materna in un libretto nominativo. Parte di quei soldi, successivamente, li utilizzarono per l’acquisto della loro casa. Chiusero il conto corrente e ne aprirono un altro intestato a entrambi.

Si sposarono con una cerimonia semplice : due fratelli per lei, nessun parente per lui. Un collega per testimone. Per entrambi tre compagni di classe. Immaginarono un viaggio di nozze che però rimandarono e non fecero mai.

I due figli, maschi, nacquero a distanza di quindici mesi l’uno dall’altro.

Anni di convivenza piatta e serena, ravvivata esclusivamente dal buon carattere estroverso di Giovanna. Non che Andrea mancasse di attenzioni verso la moglie e i figli, ma quello che la moglie si sarebbe aspettata da lui era un maggiore slancio affettivo nei confronti dei bambini, quello che lei pensava ci si dovesse attendere da una persona che aveva così presto perso il padre. E invece Andrea più spesso se li teneva vicino a guardare la televisione, con un atteggiamento passivo che raramente prevedeva carezze e contatto fisico. Giovanna giustificava questo atteggiamento, che i figli giudicavano severo, ma che in realtà la donna sapeva essere una difficoltà profonda di manifestare le proprie emozioni .

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Andrea, negli anni, si era rivelato un buon impiegato, solerte e, senza che vi fossero necessità reali, amava  stare in ufficio oltre l’ orario. Spesso, però, si alzava dalla scrivania e passeggiava intorno alle quattro pareti, manifestando un disagio a stare fermo e concentrato.

Nel tempo si adeguò  alle abitudini dei colleghi; assieme a loro, quotidianamente, faceva colazione in un bar-ricevitoria dall’altro lato della strada. Tutti insieme giocavano la schedina e al lotto. Col passare dei mesi, il giovane cominciò ad avvertire una specie di impellenza, una forma di attrazione per il gioco. Apparentemente solo la curiosità lo spingeva a scoprire nuovi giochi. Così tanto per provare. Pertanto sempre più spesso prima e dopo il lavoro si fermava alla ricevitoria. Quando scendeva al bar con i colleghi, con il resto che gli consegnava la cassiera,  acquistava alcuni biglietti “gratta e vinci”. In seguito, quando toccava a lui pagare la colazione, lo faceva con un biglietto di taglio più grosso e utilizzava l’intero resto per l’acquisto dei biglietti. Successivamente aveva preso l’abitudine di scendere due volte al bar, una da solo e l’altra con i colleghi ed entrambe le volte acquistava i biglietti con tutto quello che aveva in tasca. Cercava di non dare nell’occhio perché provava un certo pudore per quella che ancora gli sembrava una sua debolezza. Poi pian piano gli si scatenò la febbre, l’incapacità di resistere alla tentazione del gioco, qualsiasi gioco, che gli infondesse l’ aspettativa di un brivido, mano a mano più intenso, un bisogno che doveva soddisfare a tutti i costi come una necessità fisiologica alla quale non  poteva resistere .

Quando scoprì le slot-machine gli si aprì un mondo infinito. Finalmente aveva provato l’estasi, il paradiso nel quale concedere uno svago  alle sue pulsioni, fino ad allora rimaste incatenate nel suo corpo. Viveva il piacere di un orgasmo di gran lunga più profondo di quello che provava,  con sua moglie, che pure si illudeva ancora di amare. Un piacere che lo esaltava, che lo trascinava in un territorio sconosciuto, finalmente libero anzi liberato. Puro piacere, dove era contemplato il sapore maligno della trasgressione. Finchè durava.              

Ma lui viveva per quegli attimi sempre meno intensi in uno spazio sempre più ristretto che diventava una spirale che lo trascinava verso il basso, in una dimensione senza fondo. Una immensa vertigine che lo lasciava senza fiato. Erano diventati sempre più rari i momenti nei quali emergeva dall’abisso.

Di colpo la sua scala di valori si modificò. Al primo posto venne il gioco e, distanziati, il lavoro e a seguire, la moglie e i figli. Cominciò ad allontanarsi da casa e dalla sua famiglia. Dapprima due sere la settimana con la scusa delle scadenze fiscali, poi tutte le sere senza più sentire il dovere di giustificarsi. Prese a frequentare altri bar, soprattutto quelli di periferia dove non temeva di essere riconosciuto: una sambuca e un mazzo di biglietti e via a grattare, grattare fino a farsi male. A seguire le macchinette, le pensava così,” le macchinette”: sembravano meno terribili. Aveva preso a bere, dapprima, per una sorta di pudore, faceva il giro dei bar, un bar un bicchiere, poi prese l’abitudine di portarsi in tasca una bottiglia di liquore da mezzo litro. Le somme impegnate erano sempre maggiori, la sua ossessione era diventata trovare i  soldi.                                                                Già da tempo aveva messo mano ai risparmi del libretto bancario a lui intestato, sinceramente convinto che con le vincite future avrebbe reintegrato il “prestito”.  Dentro di sé si produceva in calcoli strampalati che gli consentissero di compensare le perdite con le vincite. Ogni volta che la fortuna lo assisteva  teorizzava le combinazioni che avevano prodotto quelle vincite e tutte le condizioni, da ripetere scaramanticamente: stesse scarpe, stessa cravatta, stesso percorso, stessa ora.. E quando il teorema non funzionava, si convinceva che anche quello fosse un segnale del destino, che lo metteva alla prova perché non demordesse. Quello era il suo incubo, un recinto spinato che aveva costruito attorno alla sua coscienza che doveva sedare sempre più frequentemente per non soffrire. Troppo tardi si accorse che i soldi del libretto erano andati in fumo.

Divenne irritabile, distratto, infastidito dalle manifestazioni di  affetto, sempre più rare, dei figli. In un primo tempo la moglie attribuì l’alterazione del comportamento del marito a certe difficoltà che l’azienda stava attraversando e di cui Andrea le aveva parlato, ma senza mai soffermarsi in particolari. Aveva preso a uscire da casa la mattina, la camicia e le calze del giorno precedente. Trascurava la sua igiene personale e ormai non si faceva più la barba. Pensava di lasciarla crescere, si giustificava con la moglie.

Da tempo i due avevano progettato l’acquisto di una casa al mare, cosa che i bambini avrebbero desiderato tanto e anche la moglie.  Una domenica si erano perfino recati a far visita ad un cantiere nel quale venivano su delle belle casette a schiera, a due passi da un mare meraviglioso. Un cartellone,  fissato a due pali, mostrava il villaggio finito  e l’ubicazione dell’ufficio vendite, che la domenica però restava chiuso. Pranzarono in un locale sul mare a due passi dal futuro villaggio. Giovanna aveva cominciato a produrre idee. Prese a fare calcoli su quanto sarebbe costato l’acquisto della villetta, sulla quale avrebbero investito i risparmi depositati nel libretto bancario. I ragazzi erano euforici e  manifestavano questo sentimento rumorosamente, mentre l’umore di Andrea si faceva impercettibilmente cupo. Man mano che passava il tempo e Giovanna accennava a voler dare concretezza all’idea,  il marito sorvolava invitandola a una certa cautela per la situazione aziendale non florida, anche se certamente si sarebbe risolta a breve e solo allora  avrebbero realizzato il loro progetto. Ma pian piano, questo non fu più un argomento di conversazione.

 Più tardi arrivarono le sollecitazioni della banca, le diffide dell’Enel, dell’ufficio delle imposte, del comune, il rifiuto del bancomat.

Un certo  giorno  il titolare lo fece chiamare nel suo ufficio. Era presente il direttore delle vendite. Andrea intuiva le ragioni di quella convocazione. Nessuno lo invitò a sedersi. Gli chiesero conto di un certo numero di assegni di un qualche valore  che avrebbe dovuto consegnare  già da tempo alla segretaria del commerciale, perché provvedesse a depositarli in banca. Ma quegli assegni lui li aveva consegnati al cassiere della banca, con girata falsa , incassando quelle somme. Bastarono poche parole. Il titolare fu inflessibile. Nei suoi occhi, ora freddi, gli si poteva leggere tutta la delusione che Andrea gli aveva dato, e fu irriducibile, come i padri che scoprono il tradimento dei figli. Andrea non fu cacciato dall’azienda, venne diseredato. Gli furono dettate le condizioni: niente liquidazione e contestuale sottoscrizione di un atto di dimissioni. Gli fu presentato un foglio che conteneva una confessione, che firmò senza neanche leggerlo, con indifferenza, come se la cosa riguardasse un’altra persona: da tempo aveva superato la soglia della vergogna. Non gli chiesero giustificazioni nè lui ne diede. Non disse nulla alla moglie, ma continuò a giocare.

“Io insisto”, si ripeteva con aria di sfida, dopo l’ennesimo passaggio a vuoto. “Prima o poi ti prendo!” Talvolta a voce alta. Il padrone dei giochi non lo ascoltava. Senza ragione  Andrea si  era convinto che il gestore fosse diventato suo amico, per il tempo infinito che trascorreva in quella sala anonima e squallida, diventata il suo rifugio diuturno in periferia, accanto ad altre esistenze solitarie e disperate come la sua.  I movimenti del suo corpo  si erano spenti come, del resto, i terminali del suo cervello. I suoi sensi si risvegliavano solo quando infilava la moneta e il quadro della slot  si illuminava davanti ai suoi occhi infuocati e febbrili , l’unico  apparente segno di una relazione con il resto del mondo. Ogni concorrente era concentrato nel vuoto della propria solitaria esistenza. Un’ assenza dal mondo reale, che non ammetteva relazioni neppure con i propri colleghi di vizio, con i quali c’era un prima e un dopo, mai un durante, dove ognuno coltivava il suo buio in attesa che una visita lo illuminasse.            

Non sapeva più molto di sé e niente di sua moglie e dei figli: aveva preso a scendere i gradini di quell’ abisso nel quale non era previsto nulla e nessuno. La follia del gioco si era impadronita di ogni sua fibra e lo aveva sfinito.

Si accorse di  non avere più una lira, ma rimase lì con le mani aggrappate alla slot che continuava a sollecitarlo con le sue luci sgargianti e i suoni compiacenti. Lui rimase aggrappato a quel mobile come se avesse avuto paura a lasciarlo. Provò inutilmente  a frugarsi le tasche come un automa.

 In quel posto non c’era un tavolino e nemmeno una sedia per riposare i sentimenti della propria dannazione: solo macchinette per allocchi.

Attraversò, barcollando, un piccolo corridoio verso l’uscita e si sedette sul gradino, tirò dalla tasca del soprabito la bottiglia mezzo vuota e la scolò. Non si era neppure accorto che pioveva a dirotto. Dal taschino cavò una sigaretta che serrò tra e labbra e l’acqua gliela spappolò tra le dita.

Non aveva un luogo dove andare: per lui, da tempo, non c’era più casa, né famiglia, solo un rifugio per la notte alla Caritas. La strada era deserta e male illuminata, come sono le strade di periferia. Si mosse e quasi subito inciampò in una buca e cadde. Con quella pioggia, quel fango e quell’alcol in corpo ebbe difficoltà a rialzarsi. Aveva perso il senso dell’orientamento. Andò sbattere contro il muro di una palazzina e, come se volesse attraversarlo, con le braccia alzate cominciò a picchiare, finché le mani non presero a sanguinare.  Divenne un brandello in preda degli elementi. Tutto intorno era diventato più buio, il cielo continuava a riempirsi di nuvole nere, il vento soffiava e la pioggia formava rigagnoli che scorrevano ai lati della strada. A tratti irregolari, i fulmini si imponevano, illuminando quel cielo malato. I tuoni scuotevano la notte impadronendosi del corpo dell’uomo. Sbandò, percorso da brividi di freddo. Si appoggiò al muro, precipitò a terra, rotolò sul marciapiede, una fitta gli trafisse i fianchi. L’acqua, i sudori freddi e i conati di vomito lo costrinsero a ripiegarsi come una palla di stracci. Senz’avviso, dall’ oscurità  inquieta, gli piovve addosso un colpo che gli esplose nel cervello. Lo aveva colto seduto, appoggiato al muro e con le estremità allungate sul marciapiede, come un manichino. Gli presero a tremare la testa, la gola, le braccia e le gambe e tutto il corpo,  i muscoli si contrassero ripetutamente. Non poté resistere a quell’aggressione diffusa e perse conoscenza.                                                                        

Si risvegliò stranito e dolorante come se qualcuno gli avesse levato ogni lembo di pelle. I tremori si erano attutiti. Vomitò. Sembrò calmarsi come se si trovasse immerso in una dimensione apparentemente ovattata, accecante, che lo obbligava a vedersi come mai si era visto, fino a sconvolgersi quando, davanti agli occhi, si presentò il corpo privato della sua anima.

Quel che vide non gli piacque e pianse.  Pianse di un pianto disperato, con la folgorante percezione di ciò che era diventato, pianse per essere stato incapace di apprezzare la sua prima esistenza, pianse perchè non aveva rispettato la vita di chi gli era stato più vicino. Urlò per quanto poté, di un urlo strozzato, contro il destino deviante, contro le sue fragilità, sacramentò contro il mondo che lo aveva lasciato solo a combattere le sue menzogne e la sue dbolezze, inveì contro i demoni che se lo erano preso, invocò i santi perché lo liberassero da quell’angoscia che si era fatta insostenibile. In quella notte deserta singhiozzava come avrebbe voluto fare quando aveva rinunciato alla moglie e ai figli. 

Ora, confusamente, gli veniva in mente Giovanna, la sofferenza che le aveva dato, seduta di fronte a lui che lo implorava di smetterla per i loro  figli e per se stessi, offrendosi di stargli vicino quanto mai lo era stata. Pensava, dentro questa  nebbia che gli offuscava il cervello, a quanto lei lo avesse amato, di un amore che includeva anche il suo, per quanto lui era stato impotente a comunicare il proprio affetto. E pensava alla povera Giovanna che aveva combattuto contro una nemica invincibile, di cui lui era il miglior alleato. Lo aveva scongiurato perché si facesse curare, ma , testardo, non volle ammettere il disastro che aveva fatto della propria vita. Riconobbe, nel suo delirio, che la moglie non aveva avuto altra scelta che quella di  separare da lui il destino suo e dei figli. Alla fine, forse, chiese perdono. 

Si pisciò addosso in mezzo alla strada, come a volersi liberare dei suoi tormenti.

Poi il silenzio sovrastò ogni cosa.

Frugò lentamente con la mano angariata quelle povere tasche con un movimento che anni prima compiva quotidianamente, alla ricerca delle chiavi dell’azienda. Era stato un atto simbolico allora, quando il commendatore lo invitò nel suo ufficio e gli consegnò le chiavi dicendogli: – Andrea finché non vai in pensione questa è la tua seconda casa. Solo chi ha le chiavi è padrone di casa. – E lo vantò per il suo attaccamento al lavoro . Si commosse d’orgoglio ma non lo diede a vedere.

Anche allora non aveva festeggiato né con i colleghi né in casa. Eppure era al settimo cielo. Si era chiuso nel suo ufficio e con la testa tra le mani aveva lasciato che la sua immensa soddisfazione gli scoppiasse dentro.

Finalmente la sua mano avvertì il ventaglio delle chiavi, fredde, le sue dita disgraziate si strinsero intorno e se ne impadronirono. Quando lo cacciarono dal lavoro, nessuno gli chiese di restituire le chiavi.

Si sollevò da terra con grande fatica, camminò rasentando il muro, lucido, nella sua determinazione di volersi allontanare da quel luogo.

Lo trovarono impiccato nella sala delle auto usate, appeso al cassone di un furgone davanti alla vetrina, come uno straccio steso ad asciugare. Se ne accorse un passante mattiniero, quando l’operaio della concessionaria sollevò la serranda. Il poveretto si era nascosto lì la notte prima. 

Che quella fosse stata una scelta consapevole, quasi a voler esporre il suo corpo al pubblico disprezzo, rimase solo una distaccata considerazione del medico legale. Non aveva lasciato scritta nemmeno una parola: il  suo inferno, già da vivo, apparteneva ad un universo che  non prevedeva l’esistenza di altri esseri umani. Di quelli che lo conoscevano nessuno provò meraviglia per la sua misera fine. Alcuni tra loro nel segreto della  propria coscienza  vissero la sua morte  come la fine di una disumana sofferenza per la famiglia.

Per lui, invece, nessuna pietà. Quell’uomo  non aveva saputo cercare la compassione del prossimo e aveva rifiutato di condividere la propria sofferenza, talvolta negandola, altre volte sminuendola. La sua natura gli aveva impedito di indirizzare i propri sentimenti e le proprie passioni fuori da sé, schiavo di intime pulsioni e in balia delle sue tentazioni, chiuso nella sua solitudine. Un uomo  come altri, al quale nessuno avrebbe potuto negare la sua compassione.

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