Montevecchio – Guspini, la Metalla neapolitana_di Tarcisio Agus
Montevecchio, toponimo moderno, quando i primi cavatori vi operavano, in particolare nell’area di levante chiamavano quei luoghi che ancora si mantengono, con Genna Serapis (porta di Serapide) nel passo, Monti Jana (monte di Diana) il versante che sovrasta l’area di Sciria e termina a oriente con Punta Malacuba, dalla divinità semitica Malakbel.
Non abbiamo ad oggi elementi certi dello sfruttamento nell’area ristretta di Montevecchio in fase neolitica e nuragica, anche se sono presenti tracce di antica frequentazione, ma a sud dell’area mineraria, entro il recinto megalitico del nuraghe Saurecci, è stata rinvenuta una matrice fusoria in steatite per la produzioni di bipenne (ascia e piccone). Il sito che si poggia su un promontorio a 175 m. s.l.m era già oggetto di frequentazione durante l’ Età del Rame, in particolare si ritrovano importanti elementi della cultura di Monte Claro (2500-1880 a.C), quando la ricerca mineraria e la metallurgia fanno importanti progressi certificati da significative produzioni bronzee (frecce, asce, punteruoli etc) ed è in questo periodo che appare anche il piombo, utilizzato attraverso grappe per il restauro di vasi di terra cotta.
Il complesso di Saurecci costituito da un recinto megalitico protetto da alte mura, si estende su una superficie di oltre 4500 mq ed è controllato da quattro torri di avvistamento, potrebbe essere l’area “industriale” nuragica, se lo chiedeva a suo tempo il prof. Giovanni Lilliu che avrebbe voluto indagarla, visto la vicinanza ai filoni minerari di Montevecchio e Guspini. Verosibilmente la Metalla neapolitana (area Montevecchio – Guspini), attraverso il sito di Neapolis, già abitato in fase nuragica, potrebbe aver fornito il piombo rinvenuto nella scorsa campagna di scavi nella dirimpettaia necropoli nuragica dei giganti di Monti Prama. Se ancora navighiamo nel buio per il periodo nuragico, oggi per le fasi successive ci sostengono diversi ritrovamenti ed elementi scientifici inequivocabili per affermare che nell’area di Guspini – Montevecchio levante si cavava e fondeva già in fase semitica.
Il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) nel 1996 effettuò una importante ricerca scientifica sul territorio, in particolare a Sciria e Conch’é Mosu, raccogliendo notevoli testimonianze tra cui scorie, piombo grezzo e tuyeres (Elementi ceramici tubolari di varia forma impiegarti per l’introduzione controllata dell’aria nelle fornaci). La caratterizzazione microchimica e microstrutturale delle scorie pirometallurgiche e refrattarie rinvenute collocano il sito di Sciria e Conch’é Mosu al periodo punico, con un arco temporale che va dal IV secolo a.C. sino alla fase romana imperiale del III d.C.
Così nella relazione i ricercatori Dott. T. de Caro e Dott. G.M. Ingo descrivono il processo fusorio della galena, da cui si estraeva piombo ed argento:
“Il processo pirometallurgico di estrazione dell’argento era molto complesso da un punto di vista tecnologico ed era condotto sotto stringenti controlli metallurgici dal momento che era importante perdere la minor quantità possibile di metallo prezioso.
Il primo passo del processo prevedeva l’estrazione del piombo argentifero dal minerale che era la galena (PbS, solfuro di piombo). A tale scopo la galena era arrostita all’aria mediante un processo denominato matte smelting che provocava la rimozione dello zolfo come SO3 e SO2 e la trasformazione del piombo sia in piombo metallico sia in ossido. Nelle micrografie delle sezioni di alcuni materiali rinvenuti a Conca e Mosu si notano chiaramente i resti del processo di matte smelting costituiti da una matrice composta principalmente da ossidi di piombo, Pb° e PbS. I prodotti di questa operazione venivano trasformati in seguito totalmente in piombo metallico in una fornace operante in condizioni riducenti (tavola VII e VIII).
La successiva separazione tra il piombo e l’argento presente nel piombo argentifero era condotta per ossidazione selettiva del piombo a litargirio (Pb0), tecnica conosciuta come coppellazione e schematicamente descritta in tavola IX.
La coppellazione era condotta impiegando un recipiente di natura basica a forma di scodella, detta coppella, dove erano posti i pani di piombo argentifero sulla superficie dei quali, a una temperatura intorno ai 1000°C, ottenuta tramite combustione di carbone di legna, veniva soffiata dell’aria che convertiva selettivamente il piombo ad ossido (litargirio) e manteneva l’argento allo stato metallico. Il litargirio, essendo meno denso del metallo, tendeva ad arricchirsi in superficie e poteva essere allontanato inclinando la coppella o più semplicemente asportato dalla superficie con l’aiuto di bacchette di ferro. Quando tutto il piombo era stato ossidato e il litargirio era stato rimosso, sul fondo della coppella rimaneva una massa globulare di argento metallico.
La caratterizzazione microchimica di questi materiali ha dimostrato quindi che essi possono essere associati al processo tecnologico per la produzione del piombo e dell’argento tramite coppellazione.
Come già detto in precedenza, si sottolinea che il sito oggetto dell’indagine, per quanto concerne la nostra conoscenza, è il primo in Italia dove è stata dimostrata con certezza scientifica la produzione d’argento in epoca pre-romana e sarebbe di grande interesse la conduzione di un saggio di scavo archeologico e lo studio microchimico e microstrutturale dei nuovi materiali rinvenuti.”
Le testimonianze più significative di Montevecchio levante, relative alla fase romana di sfruttamento minerario sono senz’altro gli oggetti di piombo e bronzo consegnati dalla direzione di Montevecchio al Soprintendente Antonio Taramelli nel settembre del 1933. Trattasi di secchielli, vasi in lamina di piombo e secchi in bronzo con al lato una cinghia di cuoio, presumibilmente utilizzati in un sistema manuale o a trazione animale per lo svuotamento delle acque nelle gallerie, ma il pezzo più interessante è senza dubbio una pompa o sifone in piombo che farebbe pensare essere parte di un primordiale impianto di “laveria” per il trattamento dei minerali. Il ritrovamento parrebbe essere avvenuto negli strozzi (scavi a cielo aperto) tra Sciria e la galleria Anglo Sarda, presso la quale venne realizzato un ampio piazzale, come oggi vediamo, occultando le attività minerarie romane.L’area ricade nella regione chiamata Sa Fraiga (La fabbrica), toponimo quest’ultimo che ci richiama ad un’intensa attività produttiva.
Così come testimoniano la presenza romana le sepolture in Piccalinna ed il tesoretto di monte romane recuperante in regione S’intrada de Monti di rimpetto a Conch’é Mosu. Trattasi di 114 monete degli imperatori Costanzo II, Valentiniano, Valente e Graziano riconducibili al IV d.C.
Interessante il commento del Taramelli che ricevette la donazione per il museo di Cagliari: “ … gruzzoletto, che per la sua esiguità del valore dei suoi elementi può appunto esser derivato da modesti operai di miniere e da cottimisti o caponarii di qualche cantiere, nell’ultima età romana.”
Il filone di Sciria e Conch’é Mosu, scompare in direzione sud – est per riapparire in periferia dell’abitato di Guspini in regione Cuccureba, lungo l’antica via detta Sa ia de sa mena (la via della miniera) con il prolungamento dentro l’abitato, oggi interamente ricoperto dalle abitazioni, ma da antiche testimonianze possiamo dire si trovino ancora sotto le vie Mazzini, Garibaldi, Don Minzoni e viale Libertà.
La presenza di ampie quantità di litargirio rinvenuto negli anni del 1920 in diverse aree nell’abitato, testimoniano una continuità estrattiva e di lavorazione con quelle di Montevecchio levante.
La regione di Cuccureba detta anche rione Cuccureba, trovasi alla periferia nord dell’abitato, ove la presenza romana ha restituito, durante i lavori di ristrutturazione di una vecchia abitazione, un piccolo bronzo di 10 cm, sicuramente elemento votivo di una sepoltura nella necropoli sulla via della miniera, oppure, proviene da una importante abitazione dei primi nuclei di guspinesi o da una villa. Il bronzetto, riconducibile al II a.C, parrebbe rappresentare una delle divinità ( Lari) che si veneravano posizionate in un angolo riservato nell’antica casa romana, detto Larario. Nel nostro caso, per l’iconografia il piccolo idolo sembrerebbe rappresentare Vesta, una figura della mitologia romana, figlia di Saturno e sorella di Giove, Nettuno e Plutone, dea del focolare domestico e pubblico. La convinzione che il bronzo romano provenga da un abitato, oggi nascosto dall’attuale assetto urbano, potrebbe essere sostenuto anche dal fato che in prossimità del primordiale insediamento, perdurano un gruppo di antichi ulivi, innestati su ceppi di olivastro in posizione scoscesa per evitare i ristagni d’acqua così come era nella tradizione romana, con una interessante e possente struttura. Fra i tanti, un’ulivo raggiunge l’altezza di oltre 10 metri e si sdoppia dalla sua radice, costituendo di fatto un albero del diametro di 248 cm con una circonferenza di 677, dimensioni che ci rimandano, sulla base dei calcoli di accrescimento, al periodo romano.
Francesco Lampis, guspinese appassionato di archeologia dal 1919, per diciotto anni, sino all’ottobre del 1937, tiene una stretta corrispondenza con il Taramelli segnalando ogni emergenza compresa quella mineraria che lui stesso aveva toccato con mano quando rientrato da Genova si stabili nella via Don Minizoni. Nella relazione del 15 gennaio 1923 cosi scriveva:
“Poiché sono in tema di fonderie, le voglio parlare di una fonderia di epoca romana.
Fonderia di epoca romana – La vastissima zona, circa 300 metri in lungo per 100 in larghezza, adibita a lavorazione mineralogica è oggi quasi totalmente entro l’abitato di Guspini, si estende da casa mia, non molto lungi dal municipio, fin presso le falde del “Su Cucuru de Zeppara”. In varie epoche si sono trovate delle lastre di piombo e recentemente, nel mese di agosto scorso anno, in un terreno di certo Serra Luigi detto Teulacciu, egli volendo lavorare profondamente il terreno, ha trovato fondazioni in pietre e fango, il sito ove proprio fondevano i minerali, un largo strato di carbone che pare di produzione odierna, il terreno sottostante cotto dal fuoco, molti rottami, esternamente friabili, di stoviglie, tegole o canali di fattura romana (in cocci) di terra molto leggiera, una lastra di piombo (senza marca), dalla forma di un otto, una lente era perfettamente piana nel mentre l’altra era concava. Anni addietro scavò una fontana ed alla profondità di tre metri trovò un coccio in ottima terra, ora in mie mani. Io vi ho raccolto molti pezzi di litargirio (un pezzo l’ho lasciato al Museo al Sig. Segretario) la parte inferiore di un’anfora a base molto stretta e pare sia servita per olio e cocci di tegola. Un altro proprietario aprendo pochi mesi or sono, le fondazioni per un muro di cinta ha trovato pezzi di litargirio, una tubazione ed una anforetta dell’altezza di 10 centimetri circa, che rese in frantumi per esplorarne il contenuto. In piena zona io vi ho un giardino, vi ho rinvenuto molti pezzi di litargirio, rottami di canali e tegole romane, blocchi di agglomerato che giudico riferiti di calcinazione, scorie non perfettamente fuse aventi vene di piombo metallico, ciottoli forati in pezzi e metà di una fusaiola fatta di terra (sabbione) del medesimo posto”.
Nella lunga corrispondenza il Lampis indica ulteriori aree oggi entro l’abitato e nell’immediata periferia ove rinviene litargirio, pestelli e altro materiale pertinente ad ambiti fusori, il che confermerebbe che Guspini, col suo nascente abitato, fosse parte integrante di quella Metella neapolitana certificata dalle ricerche del CNR.
Sicuramente i damnatio ad metalla dovevano avere i loro giacigli o modeste abitazioni a ridosso dei filoni guspinesi in quanto a Montevecchio levante, pur riscontrando importanti tracce della presenza romana queste sono da considerarsi esclusivamente di cantiere, non sono stati ritrovati ad oggi tracce di insediamento urbano, mentre l’area dell’attuale abitato di Guspini ha ricoperto non solo i filoni minerari ma sicuramente anche le prime abitazioni o ville, in quanto, a differenza dell’area di Montevecchio, Guspini offriva sorgenti d’acqua perenni e giacimenti minerari, non solo di piombo e argento ma anche fondamentali materie prime per l’edificazione, con imponenti depositi di argille e di calce.
Ancora oggi nell’abitato persiste il toponimo Perdas Biancas (le pietre bianche dalle quali si estraeva la calce idrata) ma lo stesso toponimo Cuccureba (cumulo di tegole), richiama un antico borgo ricoperto di tegole o un luogo di produzione, oggi diremo a bocca di miniera. Nella stessa area insisteva l’antica fornace Bianco protrattasi sino a metta del 1900, sostituita poi dalle fornaci Scanu tutt’ora attive.
Guspini quindi non solo luogo di miniera e di cave romane ma anche abitato costituito dai nuclei di dannati ad Metalla che realizzavano le loro modeste abitazioni per ceto, in case a corte pluricellulari ma distanti le une dalle altre, questi gruppi di abitazioni venivano chiamate Addeus. Nella parte storica di Guspini si mantengono ancora significativi esempi. Racchiuse da cinta muraria con cortile centrale dove si affacciano le abitazioni, venivano erette e abitate come ancora oggi da nuclei di famiglie della stessa origine.
A sostegno di un abitato romano che operava nell’importante Metalla neapolitana possono essere richiamati i ruderi residui di un probabile tempio romano sotto il pavimento dell’attuale duomo di San Nicolò. Le tracce che ancora si conservano richiamano un tempio in Antis di forma rettangolare, in posizione elevata rivolto a oriente, come d’usanza romana, poi nel IV-VI d.C., grazie a materiale di spoglio recuperato, come i capitelli di Putto, si può affermare che il tempio venne presumibilmente cristianizzato con l’intitolazione a Santa Barbara, tutrice dei minatori, dei fabbri ferrai e maestri della fusione.
Guspini, con l’appendice di Montevecchio levante, potrebbe quindi essere stata la Metalla neapolitana, peraltro anche l’origine del toponimo Guspini, potrebbe essere un importante elemento a sostegno. Il glottologo Prof. Giulio Paulis definisce Guspini derivante dal latino Cuspis/cuspides, (luogo di punte), non esistendo nel paesaggio guspinese cime appariscenti, con molta probabilità il riferimento era rivolto alle produzioni di utensili appuntiti necessari per l’escavazione come piccozze, picconi, punteruoli, badili, etc, indispensabili sia in ambito minerario che di cava, argille e calce. Le diverse tracce, oltre che di fucine nell’abitato, sono testimoniate anche dal ritrovamento di monete ed in particolare si ricordano quelle d’argento di Giano Bifronte e Lucio Valeri Flacco di fase repubblicana o le diverse sepolture, ultima in ordine di tempo con l’apertura di viale Libertà emersero diverse sepolture con vasellame, monete bronzee e lastre di piombo.
Si potrebbe obiettare sul fatto che Metalla, indicata nell’Itinerario Antonini, redatto nel III sec. d.C, non coincida con la nostra Metalla neapolitana, per la distanza che intercorreva tra Neapolis e Metalla quantificata in 30 miglia, pari a 45 km, mentre Neapolis Guspini è pari a 15 miglia, 22 Km.
Tenuto conto che ancora oggi, nonostante la scoperta del tempio di Antas, non sappiamo l’esatta ubicazione di Metalla, per cui l’Itinerario Antonini potrebbe aver indicato presso Fluminimaggiore, il centro del vasto bacino minerario che dal Guspinese – Arburese raggiungeva il Sulcis – Iglesiente, lungo la strada Tibula Sulcis, con l’equa distanza di 30 miglia da Neapolis- Metalla e da Metalla e Plumbea-Sulci. Se consideriamo che in epoca romana la gran parte delle miniere erano di proprietà dello Stato, è verosimile che di Metalla ce ne fossero più d’una. A sostegno di questa ipotesi si potrebbe prendere ad esempio il lingotto imperiale recuperato nella miniera di Carcinadas nel salto di Fluminimaggiore presso la località San Nicolò. Il pane di piombo recava la scritta IMPCAESHADAUG (Imperatore Adriano Augusto), la stessa intitolazione, ma con caratteri e forma leggermente diversi di quelle rinvenute, nel luglio del 1987, nel mare di S’enn’é s’arca -Arbus.
Quaranta lingotti, quelli di Arbus, provenienti sicuramente dalla Metalla neapolitana, imbarcati nel porto di Neapolis per la capitale dell’impero e naufragati nel tentativo di porsi al riparo di un probabile fortunale. In quel periodo sul territorio guspinese erano presenti degli Italici ed in particolare a nord dell’abitato di Guspini nella villa romana in località Urradili risiedeva un certo L.Quinctius L.l(libertus) Antiochus, lo ricorda una iscrizione, oggi nell’atrio del comune, del I sec. d.C. La gen Quinctia di origini patrizia erano oltre che latifondisti, come nel nostro caso, considerati anche dei negotiatores, corporazione di mercanti dediti ai commerci più ricchi e il piombo per Roma era considerato un prodotto di fondamentale importanza per innumerevoli funzioni oltre l’argento, per cui non è da escludersi che attraverso i Quinctia di Urralidi i carichi di piombo venivano imbarcati, come molti altri prodotti, dal porto di Neapolis per Roma, attraverso la rotta del sud della Sardegna, quella più battuta e più commerciale per via delle numerose città e porti presenti sul tratto Tharros a Calaris, così da poter imbarcare in uno stesso naviglio ulteriori merci.