Luglio 27, 2024

Eccoli i cagliaritani del Poetto che non c’è più_di Alberto Cocco

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Il grande giorno è arrivato.

Il Poetto di Cagliari si prepara alla disfida.

Lo spazio delimitato è quello della sesta fermata, davanti al pronto soccorso dell’Ospedale Marino, dopo la Sella del Diavolo e la Marina Piccola, la prima cittadella dei policromi capanni di legno con veranda, gli stabilimenti balneari del quieto e familiare D’Aquila e dell’esclusivo e più chiassoso Lido.

Il vecchio tram, che dalla darsena cagliaritana porta all’arenile, si ferma duecento metri prima, all’altezza di un caseggiato fatiscente, di un piccolo ponte già corroso dalla ruggine ed una fontanella quasi sempre priva del filo d’acqua necessario.

Alcune centinaia di metri più avanti e prima della Bussola di tante attività commerciali, fanno bella mostra gli stabilimenti dei corpi militari, sempre impeccabili e bene organizzati all’interno.

Alle diciassette è il momento della partita di ferragosto, così attesa e lungamente preparata per un mese intero.

Il terreno di gioco è la sabbia finissima e quasi impalpabile, che brucia al vento dello scirocco e si deposita ovunque, tra i capelli e le calze, tra le magliette colorate e le pupille.

Due generosi e volenterosi omoni, che hanno un casotto di colore verde militare, hanno trascorso un paio di ore della sera precedente a montare le due porte di legno, più o meno regolamentari e senza la rete dei regolari campi di gioco.

Il calcio balneare è questo, incarnato sui valori del fair-play.

Nessuno dei partecipanti si sognerebbe di rivendicare un punto non realizzato, adottando un fraudolento escamotage.

La distanza tra le due porte è di circa sessanta metri, in uno spazio che sarà calpestato dall’ansare di quattordici contendenti, sette per ognuna delle due squadre chiamate all’agone.

L’arbitro è scelto sempre senza una regola precisa.

Indossa una camicia larga ed i calzoncini e brandisce il fischietto.

Il suo giudizio è inappellabile e la disciplina regna sovrana.

Le due formazioni prevedono adulti di aspetto giovanile, almeno un brizzolato con prominente pancetta e qualche scattante adolescente di illimitate risorse aerobiche, per percorrere sulla rena gli ampi tratti di terreno e recuperare palla.

Il terreno di gioco si affaccia davanti ad una lunga fila di casotti.

L’ultimo a sinistra è il più grande ed il più bello del segmento.

Appartiene ad una buona famiglia borghese cagliaritana, che scopre le gioie della salsedine e dello iodio qualche giorno prima del solstizio d’estate, davanti al chiosco di bibite e panini imbottiti, birre e aranciate, gelati e patatine fritte del signor Ancis.

Suo figlio Corrado è il bomber della squadra di casa, agile e magro, con una naturale propensione alla via della rete.

Si prepara a diventare uno dei più titolati schermidori dello sport sardo, pochi anni più tardi.

Nella squadra ospitante, si misurano due fratelli simpatici e arcigni nella fase difensiva.

Italo Pau è maggiormente indotto alla marcatura dell’avversario ed ancora non medita di avviare la sua carriera di amato anfitrione della movida cagliaritana, con i suoi locali trendy.

Oggi il pub è nello storico e romantico rione di Villanova.

Enrico ha già l’aria seria e quasi imbronciata, che presagisce un futuro di docente socialmente impegnato e regista cinematografico tra i più prestigiosi del movimento isolano.

Nella squadra si misura anche il loro cugino Maurizio Meloni, che è il vero asso della estemporanea formazione in costume da bagno.

Ha una tecnica sopraffina, ricama geometrie egregie con il pallone e catalizza le attenzioni degli avversari con i suoi movimenti.

Il nostro portiere è molto alto e di buona prestanza fisica e ci sa fare, con un istintivo senso del piazzamento.

Io faccio parte di questa squadra senza magliette e calzoncini, stemmi sociali e scarpette con i tacchetti da erba.

Non esiste nessun elemento ricognitivo, che non sia l’abitudine al riconoscimento dei propri amici abituali di quella porzione di un lungo litorale, ancora non devastato da un incauto ripascimento e simile alla esotica spiaggia di Copacabana.

Intorno al terreno di gioco si siedono i tifosi ed i curiosi, tra i quali alcuni vecchi e non poche donne.

In quel momento storico del nostro calcio, non esistono i cambi plurimi del football odierno.

Ma che importa?

La legge del Poetto estivo conosce le vie della libertà.

Gli uomini di oltre cinquant’anni entrano ed escono dal terreno di gioco per rifiatare, sostituendo i riluttanti adolescenti mai domi.

Io sono tra questi.

Sono un mehari di infinito fiato e buon allungo, tecnica mediocre ed agonismo ed un tiro secco e preciso dalla distanza.

Gli avversari cambiano ogni anno, secondo le mode  e le amicizie del momento.

Che anno è mai questo?

Che importa.

La nostalgia e la tenerezza scolorano i contorni di un’età dorata come la sabbia della sesta fermata, non distante dal pronto soccorso marino e dalla interminabile città dei capanni.

Sono gli anni di Gigi Riva e del Cagliari diviso tra lo Stadio Amsicora ( che ospita l’invincibile squadra dei campioni di hockey su prato, tra i quali primeggia il nostro attuale editore Giorgio Ariu ) ed il nascente Sant’Elia.

Sono gli anni delle gite fuori porta e dei pic-nic nelle pinete, mentre la voce inconfondibile voce di Lelio Luttazzi enuncia la settimanale classifica della Hit Parade.

Sono le notti delle riunioni di boxe e delle osterie di pesce, delle lunghe passeggiate al belvedere del Buoncammino davanti alle carceri e dello struscio tra la Via Manno e la Via Garibaldi, nei lunghi pomeriggi estivi di un capoluogo ancora indefinito ed in attesa della grande rivoluzione urbanistica, che ci restituisce una stupenda capitale del Mediterraneo.

La gente consuma gli aperitivi nei tavolini dei portici di Via Roma, mangia il gelato alla crema e torroncino della grotta di Marcello, fa la sfumatura ai capelli nelle vecchie barberie.

Hanno l’inconfondibile lanterna a righe rosse e blu esterna.

Adulti e ragazi prendono d’assalto i cinema, che hanno mille proposte di vario genere, dalla commedia lacrimosa al thriller, dal western ai kolossal come “Il Dottor Zivago”.

Le sale sono tante e si chiamano Alfieri e Ariston, Eden e Fiamma, Nuovocine e Nuovo Odeon, Massimo e Quattro Fontane, Due Palme e Adriano, Astoria e Corallo.

Sono gli anni delle prime radio libere, che si fanno spazio clandestino nelle piccole sale del medioevale quartiere di Castello e delle prime audaci minigonne, figlie della rivoluzione studentesca parigina alla Sorbona e dei fermenti del Sessantotto.

La partita dura un’ora e mezzo circa.

Si finisce sempre prima del tramonto, perché in queste giornate la luce improvvisamente si indebolisce e presagisce la nostalgia della calda stagione ed il sentore di un autunno non lontano.

La nostra squadra vince tre disfide consecutive di ferragosto, in quel periodo felice della mia vita.

In una di queste, ho il caldo ricordo di mio padre, che azzarda un secco dribbling sull’avversario lento e grassoccio e mi passa la palla con un breve tocco, che prepara la mia ennesima disordinata galoppata ed il lungo cross per l’attesa degli attaccanti.

Oggi, quando chiudo gli occhi, poche dolci immagini mi fanno rivivere la complicità tra padre e figlio, come quella retta traiettoria che unisce le trame del gioco ed i nostri cuori.

La partita di mezzo agosto termina sempre con risultati esagerati.

Nove a sette.

Undici a otto.

Dici a sei.

Si finisce con un ristoratore bagno collettivo nel mare, che a quest’ora ha un tepore ameno ed un lieve incresparsi delle onde.

Le discussioni sono poche e gli abbracci non mancano.

Altri particolari richiamo, dopo mezzo secolo.

Ricordo un terzino con il naso adunco, che aveva la cabina al D’Aquila e mi seguiva come un’ombra, nella partita sulla sabbia.

Qualche anno dopo, il giovanotto magro avrebbe incontrato un destino crudele, in un incidente d’auto.

Io finisco la partita e mi precipito nel chiosco ad acquistare un ghiacciolo all’arancia, lontano dagli occhi di mia madre.

Sono i giorni delle piccole e grandi privazioni.

Una di queste è il digiuno, prima del rientro con la Opel Kadett verdolina di mio padre e la pentola delle tagliatelle fumanti.

Mi capita spesso di ripercorre il serpentone del Poetto.

E’ tutto cambiato.

Il ligneo tram assalito dalle famiglie della città e dei paesi vicini è nell’album dei ricordi, come i piccoli chioschi sostituiti da strutture hi-tech della nuova spiaggia.

I casotti sono morti e sepolti con la mia giovinezza, subito dopo la bianca spolverata di una indimenticabile nevicata del 1985, che è il mio passo di addio.

I miei amici di quei giorni sono rimasti tali.

Ci incontriamo ancora e ci abbracciamo, anche se il nostro egoismo ci impediva di passare la palla più frequentemente e rendere più irresistibile la nostra vittoria.

I nostri capelli bianchi e le rughe sotto gli occhi trattengono ancora la sabbia fine e chiara, la melanzana alla parmigiana che impediva il nuovo tuffo prima delle tre ore canoniche, le canzoni in voga di quelle estate e la scoperta delle prime curve femminili.

Ma è stato bello esserci e raccontarlo ora.

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