Aprile 19, 2024

Il vecchio mercato di Cagliari_di Giampaolo Lallai

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A ricordarlo c’è soltanto la Via del Mercato vecchio che dal Largo Carlo Felice porta alla Via Baylle ed è parallela al primo tratto della Via Sardegna. Una via abbastanza anonima, certamente non bella, che corre tra gli edifici, anch’essi tutt’altro che pregevoli, delle due Banche che negli anni Sessanta hanno preso il posto del Mercato vecchio appunto.

I cagliaritani sono sempre molto pazienti con i loro amministratori; forse anche troppo. Ma alcune decisioni non sono mai riusciti a digerirle completamente, tant’è vero che ci ritornano in ogni occasione con salaci e pesanti commenti negativi: una riguarda lo smantellamento drastico delle linee tranviarie e, in particolare, quella per il Poetto che consentiva l’afflusso rapido ed ordinato di migliaia di bagnanti nell’allora rinomata spiaggia; un’altra concerne l’abbattimento dei casotti in legna colorata, sempre al Poetto, con tutto ciò che, purtroppo, ne è seguito e, cioè, l’irrimediabile perdita della sabbia bianchissima ed il tanto vituperato ripascimento; quella più antica, invece, risale alla fine degli anni Cinquanta, e attiene proprio al Mercato vecchio, situato quasi al termine del Largo Carlo Felice, che venne completamente demolito nel 1956; è come se fosse andato perso un preciso ed insostituibile punto di riferimento, un importante pezzo di storia cittadina carico di bellissimi ricordi che ormai ritornano solo nella memoria di qualcuno e nelle rare e sbiadite foto.Tanti questi ricordi fatti non solo di immagini indelebili, ma soprattutto di profumi e odori, buoni e cattivi, di sapori, di quotidiano frastuono, di grida cantilenanti dei rivenditori, di liti nate per banalità, di risate generali, di rumori e suoni ripetuti con cadenzata puntualità, di spintoni in mezzo alla calca, di ragli improvvisi dei numerosi somarelli in attesa paziente di riprendere il traino dei loro stracarichi carretti, di pericolose scivolate su pozzanghere, bucce o semi vari, di immancabili crastularas a voce alta, di un’infinità di frasi e battute colorite e direi quasi…professionali, come quella di un noto macellaio che allorché perdeva le staffe, avvertiva, in via precauzionale, l’importuno interlocutore che gli aveva già rotto is tres quartus de su culu\ un segnale forte di sopportazione giunta quasi al culmine!

Largo Carlo Felice – Cagliari – Il vecchio mercato civico 1886-1956

Via del Mercato vecchio non rivedrà mai più quel mondo brulicante e vociante; per questo ogni volta che la percorro mi assale la tristezza; è diventata ormai da tempo, improvvisamente troppo silenziosa, quasi irreale. Una volta era una trafficatissima traversa che separava i due complessi del grande emporio cagliaritano: quello superiore, coperto da un’alta ed elegante intelaiatura in ghisa chiusa con grandi vetrate-lucernai, era destinato principalmente alla rivendita della frutta e della verdura, ma vi erano anche molti box per la carne bovina e per i salumi; vi si accedeva dal Largo o dalla stessa traversa, tramite apposite scalinate.

L’altro complesso, quello inferiore (rispetto alla discesa del Largo), era un vero monumento architettonico, simile ad un tempio greco. Consisteva in un ampio porticato ad “L ”, quasi a piano terra, sorretto da robuste ma snelle colonne in pietra di Serrenti, con tanto di capitello e basamento. Oggi le possiamo ammirare (!), purtroppo affettate, nei pressi dell’ex Scuola agraria (in via Bacaredda) e davanti alla chiesa di Nostra Signora della salute, al Poetto. Al Mercato, all’interno e per tutta la lunghezza dell’edificio, si vendeva soprattutto il pesce, freschissimo, spesso ancora vivo. Era il settore più assortito e pittoresco; all’esterno, invece, erano in bella mostra le carni ovine ed equine, i conigli, il pollame, le uova (a montagne, “una Sierra nevada di uova” scrisse Lawrence meravigliato), la cacciagione, il pane, il formaggio e i dolci sardi. Col tempo, poi, quest’ordine iniziale venne superato ed ogni spazio utile dell’uno e dell’altro complesso, compresi quelli delle scale, fu adattato a rivendita per cui, ad esempio, i salumi si trovavano in più locali.

Fare la spesa quotidiana era una precisa incombenza, quasi una questione d’onore, di cui si facevano carico con orgoglio addirittura i capi famiglia.

Quelli abbienti, in genere, frequentavano il Mercato nelle prime ore del mattino (apriva alle sette), quando vi era più scelta tra i prodotti, a prescindere dai costi. Quelli che intendevano risparmiare si affrettavano, invece, al momento della chiusura (verso le tredici) perché allora le merci più deperibili venivano vendute a basso costo, a scarara. La notizia, poi, dell’arrivo, durante la mattinata, di merce fresca, in particolare di pesce di eccezionale qualità, si diffondeva immediatamente nelle vicine viuzze della Marina con un velocissimo passaparola e si scatenava subito una corsa ad arrivare per primi. I barbieri erano tra i veicoli più attivi di questo efficace tam tam.

Tra i più assidui frequentatori del Mercato prevalevano senz’altro le massaie, ma numerosissimi erano i distinti signori seguiti da sa tzeracca (la donna di servizio) munita di sporta o sacchette varie nelle quali venivano riposti gli acquisti. Si muovevano a loro agio, da veri esperti e consumati intenditori; avevano un fiuto collaudassimo per individuare subito la merce migliore e non cadere nelle eventuali trappole tese dagli altrettanto scaltri rivenditori. Perciò erano prodighi di consigli ai conoscenti; si soffermavano per scambiare qualche chiacchiera ed impressione sulle novità della giornata; per certuni era un modo per farsi notare in pubblico con teatrali saluti e frequenti scappellate; molti vi facevano una capatina quotidiana pur non dovendo comprare nulla o semplicemente per gustare le saporitissime cozze in vendita con pagnottina, limone ed un bicchiere di vino bianco, in un bancone posto poco prima dell’ingresso del Largo.

Nella gran folla si incontravano persone d’ogni ceto sociale: avvocati, medici, docenti, negozianti, operai, artigiani, scaricatori di porto, suore, frati etc. Di molti mi è rimasto impresso il relativo soprannome, quasi sempre impietoso ma azzeccassimo, secondo la migliore vena ironica cagliaritana. Ho tuttora ben presenti Troddiu pettonau, Merdonedda, Maniga curtza, Bucconi, Tronus e lampus, Caghendi mi seu, Priogu, Braghetta allirga, Cagalloni, Conch’e Giuanni e tanti altri.

Ma anche tra i rivenditori, carnatzeris, birduraius, arregateris, circolavano nomignoli di battaglia, come Antoni cavureddu. Qualcuno è rimasto famoso: Marama, ad esempio, era l’unica donna che vendesse triglie; Conch’e zironia era specializzato in frutti di mare. Meri mia era, invece, un fruttivendolo originario del Campidano, molto ossequioso nei confronti della sua clientela che salutava, anche più volte, proprio con quelle parole. Reputandosi “arrivato” in quanto titolare di un box un po’ più ampio e comunque arredato con molto gusto, parlava naturalmente solo in…italiano, per dare a comprendere il suo salto di qualità rispetto ai colleghi che giudicava decisamente ignoranti.

Inaugurato nel marzo 1886, su progetto dell’ingegnere capo del Comune Enrico Melis (padre del pittore Felice Melis Marini), approvato già dal 1879, al termine di un concorso nazionale bandito nel 1873; la commissione giudicatrice era presieduta da Gaetano Cima. Sostituì quello, articolato in casupole e capanni in legno e in muratura, che occupava l’intera spianata dell’attuale Largo Carlo Felice di cui ci parla molto diffusamente in Cagliari ai miei tempi (1884) Emilio Bonfis, nome d’arte di Efisio Bacaredda, era formato da semplici baracche, che partivano proprio ai piedi della statua di Carlo Felice, lo smercio dei generi di prima necessità si svolgeva in diverse zone di Cagliari senza una particolare disciplina. Il decreto del 14 dicembre 1806 del re Vittorio Emanuele I, volle organizzare con criteri più moderni la vendita al pubblico. Stabili che il mercato della carne dovesse tenersi di fronte alla Porta di Stampace, nello spiazzo in cui più tardi sorgerà il monumento a Carlo Felice; il grano doveva essere venduto nella Piazza San Francesco o di fronte alla chiesa del Carmine; il bestiame lungo le mura del Bastione di Sant’Agostino, che allora erano ancora in piedi; il pesce, gli ortaggi e gli altri generi nella contrada d’Yenne e nella salita di Santa Chiara.

Bonfis fu tra i maggiori sostenitori della creazione di un apposito ed unico edificio da destinare al mercato e della conseguente demolizione di quelle baracche anche per ragioni igieniche. Capì, ad esempio, che i rivenditori, specie quelli di prodotti deperibili, avevano la necessità di disporre di idonei magazzini nei quali conservare la loro merce da un giorno all’altro, senza essere costretti a portarsela via. Comunque decantò con entusiasmo quella permanente fiera annonaria: si vendeva ogni ben di Dio. Dal pane nostrano alle carni (persino di cinghiale e capriolo), dal pollo alla gallina faraona, dalle pernici ai prelibati pillonis de taciila. Ma il vero protagonista anche di quel mercato era il pesce: ve n’era davvero in strabocchevole abbondanza tanto che le rivendite risultavano del tutto insufficienti a contenerne la quantità; “pescato in tutte le ore del giorno come della notte. 

I cagliaritani, insomma, avevano già una forte tradizione in materia; erano dei fini intenditori, degli autentici buongustai. E il nuovo emporio non li deluse affatto specialmente per il pesce, sempre in grandissime quantità, ma sistemato finalmente in modo ordinato, anche sotto il profilo igienico, nei lunghissimi ed ampi banconi di marmo bianco. C’era solo l’imbarazzo della scelta: mumungionis, spareddas, pisci de Santu Perdu, anguiddas, sardinas, lissas, piscis boladoris, giarrettus, pisci spada, pisci urrei, maccionis, arrocalis, gorbaglius, cociulas imbriagas, cociulas nieddas, prupus, cambaras, cavurus, murenas, lupus, sepieddas, un’elencazione davvero ftefinoptrae altrettanto provvisto era anche l’altro edificio, quello della frutta e della verdura. Molto ricercati, durante la rispettiva stagione, erano i fichi e, in particolare, sa figh’e Pula, l’uva (su muscareddu), su piricoccu, su pressili, sa figli morisca.

Strettamente legata alle immagini ormai ingiallite dei mercati in questione è la figura de is piccioccus de crobi, cioè dei ragazzi cui ricorrevano i signori per farsi portare fino a casa, nelle apposite ceste capaci, la spesa appena fatta al Mercato. Il compenso era molto misero, ma indispensabile per la sopravvivenza quotidiana. Analoga funzione avevano in Spagna gli e spor tilleros, i ragazzi della sporta.

Is piccioccus de crobi, in genere, erano adolescenti abbandonati dai genitori o comunque poco seguiti da questi. Il loro unico bene era sa crobi, prezioso strumento di lavoro, dalla quale non si separavano mai; la usavano come ripiano per giocare a carte, in partite che quasi sempre finivano a urla, parolacce e a corpus, oppure come guanciale su cui poggiare la testa per dormire; oppure ancora come corpo contundente da lanciare tra i piedi di chi li offendeva per provocarne la rovinosa caduta; e, ovviamente, come parapioggia o parasole.

Alcuni di questi ragazzetti, soprattutto durante le ore serali che trascorrevano nell’ozio, compivano delle bravate, avevano spesso atteggiamenti violenti e manifestavano una certa inclinazione a delinquere, specie una volta cresciuti. Molti venivano gradatamente assorbiti dalla malavita e finivano in carcere. Divennero, insomma, un problema sociale; costituivano un gruppo piuttosto folto di diseredati, evidente testimonianza del malessere cittadino. Agli inizi del Novecento, nel convincimento di poterli tenere più facilmente sotto controllo, furono addirittura costretti a portare al collo una medaglietta d’ottone con un numero d’ordine. Inoltre il nominativo di ciascuno venne trascritto in un apposito registro tenuto dalle guardie. Più umano e risolutivo fu, invece, l’intervento di Suor Giuseppina Nicoli dell’Asilo della Marina. Nell’estate del 1914 cominciò a convincere quei monelli sporchi e maleducati a seguirla nel suo Istituto e qui offrì un pasto caldo quotidiano, un sorriso e tanto amore creando l’associazione dei Marianelli (monelli di Maria) che contribuì non poco a far scomparire ispiccioccus de crobi: intorno agli anni Venti non esistevano più.

Nel Mercato vi era anche una fabbrica di ghiaccio. Lo stabilimento, di circa 2000 mq., fu costruito, nei primissimi anni del Novecento, nello scantinato dell’edificio destinato al commercio della frutta e della verdura. Fino ad allora il ghiaccio veniva importato, fra mille difficoltà, dai paesi vicini al Gennargentu, ma soprattutto dalla Scandinavia in cambio del sale e del vino nostrani. Vennero create le celle frigorifere, un supporto essenziale per l’intero emporio. Di esse si servivano tutti i rivenditori per riporre le merci avanzate al termine della mattinata. Nelle celle finivano anche i quarti di bue provenienti dal macello comunale di via San Lucifero (oggi Exmà), scaricati dai furgoni e trasportati a spalla da uomini in camice bianco anch’essi noti con uno specifico soprannome: strattallau, spirrittu, accraccangiau, frumighedda, co’ ’e porcu, ecc..

La rivendita del ghiaccio della ditta “Marzullo e Marchisio” diventò subito una meta molto frequentata. Al termine della spesa domestiche e signori acquistavano un pezzo di ghiaccio e ) lo portavano via con un’apposita reticella. Serviva per conservare il cibo da un giorno all’altro. Fino ad allora i recipienti con gli alimenti venivano riposti, durante la notte, sui davanzali delle finestre. Ma il sistema non sempre funzionava e non di rado, specie con l’afa estiva, il tutto finiva “in d’unu pudesciori” generale.

Tempi andati. Sembrano lontanissimi. Fare la spesa oggi è tutt’altra cosa. C’è qualche bottegaio sotto casa, ma ci sono soprattutto i supermercati dove prevalgono le note del sottofondo musicale. Tutti tendono a parlare a bassa voce e ci si serve da soli. Non esiste il dialogo col rivenditore, e, quando c’è, è ridotto all’essenziale. Manca il momento sociale. Un po’ di quell’aria antica la si può ancora respirare al Mercato di San Benedetto che insieme a quello di via Fola sostituì l’emporio del Largo. Ma chi ha conosciuto quest’ultimo vi dirà senza esitare che non è la stessa cosa. Magari non si dilungherà più di tanto per spiegare i perché. Ma è un’altra cosa davvero.

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