Aprile 26, 2024

Montevecchio industriale Sanna Castoldi_di Tarcisio Agus

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La morte di Giovanni Antonio Sanna aveva lasciato campo libero agli avidi generi nella gestione mineraria, Gianmaria Solinas, Cecchino Guerrazzi e Peppino Giordano, mentre il giovane ingegner Alberto Castoldi, all’età di 27 anni, raggiungeva Montevecchio con la carica d’ispettore. Nonostante la sua giovane età aveva dalla sua un’importante specializzazione d’arte mineraria e una vasta conoscenza maturata in diverse miniere europee. Sostituiva l’ing. Asproni che per ovvie ragioni, visto il forte legame con Giovanni Antonio Sanna si era dimesso, non poteva stare a Montevecchio e operare con i generi del Sanna che nulla conoscevano di miniere, ma solo i dividendi e le appropriazioni indebite di capitali che l’Asproni più di una volta comunicò al suo caro amico Giovanni Antonio.

Alberto Castoldi

Alberto Castoldi non si perse d’animo e forte della sua preparazione e formazione riusciva a tener testa ai generi e due anni dopo, con il titolo di Direttore Generale, poté accogliere, il 19 di marzo del 1877, il Principe Tomaso con il suo seguito, venuto a Montevecchio per inaugurare la nuova laveria che verrà a lui intitolata, Principe Tomaso. Da subito metteva mano alle opere strutturali e di servizio come il bacino artificiale sul torrente Rio per alimentare il nuovo impianto di trattamento. Deciso a trasferirsi a Montevecchio con la sua famiglia, incaricò l’ingegnere Enrico Coletti per predisporre il progetto della direzione e della chiesa, consegnatoli il 6 di luglio del 1876. Accantonando il progetto del suocero, che aveva già fatto realizzare tronchi di colonne e parti di trabeazione del pronao di un’imponente chiesa, oggi sparsi sul Viale dei Pini e Viale Gramsci, sulle fondamenta della stessa sorse il palazzo Sanna Castoldi, con gli uffici della miniera, l’abitazione per la famiglia e la cappella. Sotto la sua direzione il sontuoso palazzotto in stile toscano, con varianti da lui attuate rispetto al progetto Coletti, venne completato con la copertura del tetto nel maggio del 1878. Altre importanti infrastrutture furono l’edificazione di diverse stazioni, come quella di Nuracci a Guspini e San Gavino con magazzino e piano di carico, della ferrovia a scartamento ridotto della Montevecchio (Sciria)-San Gavino, lunga 23 km, costata 2,7 milioni di lire, con trazione a vapore, rimase in esercizio per 80 anni.

Erano gli anni tra il 1881 e 1886, già deputato dall’anno prima, il Castoldi riusciva a programmare con lungimiranza le importanti ricerche, come il nuovo livello di Sant’Antonio, cui veniva dato il nome della figlia del Sanna, Ignazia, l’inizio dello scavo del pozzo Amsicora a Telle e nel 1882 fu la volta, sempre a Sant’Antonio del livello Enedina, la defunta figlia del Sanna.

Nel 1882 venne completato i bacino Zerbini, con una capacità di 30.000 mc per alimentare la laveria La Marmora.

Furono anche gli anni in cui vennero modificati i metodi di coltivazione, introducendo per la prima volta la tecnica del riempimento dei vuoti, sia per ragioni di sicurezza che per recuperare le parti minerarie, chiamate pilastri, che reggevano i vuoti ancora ricchi di minerale, altrimenti sarebbero stati abbandonati.

Il 1886 si apriva con la realizzazione della fonderia di ghisa e metalli pregiati presso l’Anglosarda, l’anno successivo produceva già 63 ton di ghisa e 188 ton di ottone. Divenne il cuore produttivo dei pezzi di ricambio delle macchine, in particolare durante le due guerre quando l’approvvigionamento venne meno, ma divenne anche fucina per autoproduzioni di macchine d’estrazione e pompe di adduzione, come quelle usate nei pozzi Sanna e Amsicora.

Laveria Principe Tomaso e cantiere Piccalinna

Erano anni importanti perché la quotazione del piombo cresceva, così s’intensificarono le ricerche e si espanse la proprietà con l’acquisizione della vicina miniera di Piccalinna e Sciria in mano ancora alla società francese, Nouvelle Arborense, ai limiti con la prima concessione Montevecchio.

La Montevecchio non riprese i lavori di Sciria e il pozzo Galileo venne colmato con detriti, mentre a Piccalinna il castello del pozzo San Giovanni, allora ligneo, veniva ricostruito in muratura che ancora possiamo ammirare.

Il decennio 1887-1897 si apriva con la sostituzione della gerenza Solinas, la separazione legale, chiesta dalla moglie Ignazia Sanna titolare delle azioni, non le permetteva più di disporre delle quote di capitale, indispensabili per mantenere la gerenza, al suo posto vennero  scelti due gerenti, l’avv. Domenico Rossi Forni e l’ingegnere Francesco Alberto Guercio. A loro vennero assegnati i servizi amministrativi e commerciali, mentre il compito tecnico venne tenuto dall’ingegner Castoldi, in qualità di Direttore Generale.

La produzione della miniera procedeva su livelli di 11-12.000 t/annue di galena e le ricerche avevano raggiunto i 2 km annui, così pure i dividendi passavano dai 300 lire ad azione del 1887 alle 400 nel triennio 1889-91. Molti  tratti di gallerie, in particolare quelle di carreggio e del pozzo San Giovanni vennero rivestiti in muratura. A ponente furono approfonditi i pozzi Sanna e Amsicora con nuovi livelli e con  collegamenti fra il ribasso Sanna e Telle IV.

Pur a fronte dei numerosi interventi, il 1892 iniziò con un nuovo periodo di recessione che si trascinerà sino a tutto il 1896, con una progressiva riduzione della ricerca e un immancabile calo anche dei dipendenti. Non si riusciva a vendere tutta la produzione, Montevecchio a differenza della vicina Ingurtosu non disponeva di una propria fonderia, in parte venne salvata con la produzione della blenda che iniziava a essere coltivata, con apprezzabili nuovi  ricavi, ma non scongiurerà il  dimezzarsi dei dividendi.

La china sulle produzioni non mutava nel 1894 e le unità lavorative diminuivano ulteriormente sotto le migliaia (920), con 363 minatori, 502 manovali (di cui un terzo all’interno) 54 donne, 40 ragazzi e 18 ragazze con meno di 15 anni.

La richiesta delle blende, che provenivano principalmente da ponente, in particolare dal nuovo livello, l’intermedio Sanna e San Giorgio, venivano trattate nella laveria Sanna con percentuali di Zn pari al 50%. Se le produzioni venivano meno non si arrestò l’investimento su edifici civili e infrastrutture, considerati beni al servizio del giacimento.

Il 1897 si chiudeva con la ripresa delle quotazioni dei metalli, dando nuovo impulso alle attività. Fu anche l’anno del ritorno al gerente unico, attribuito per il triennio 1897-1910 all’avv. Domenico Rossi Forni, che diede corso alla ripresa delle ricerche che raggiunsero nuovamente i 2 km annui, in particolare a levante si ottennero importanti risultati al 1° e 3° livello ponente di Piccalinna e pare eccezionali al 2° livello. Altrettanti i risultati a Sant’Antonio nei livelli Ignazia e Enedina. Non da meno furono anche i ritrovamenti, considerati buoni, di ponente nei livelli StromboliSanna (2° concessione). Le nuove ricerche consentirono il richiamo a lavoro di molti operai e  con la vendita delle blende  la ripresa degli utili, tornati su 400 lire a azione nel 1899. I ritrovamenti incoraggiarono ulteriori lavori che raggiunsero i 2,526 km, con particolare riferimento in Anglosarda, ove si ritrovarono filoni con potenza sino ai 2 m, tutti nei livelli intestati alle figlie di Giovanni Antonio Sanna,  Ignazia e Zely, a 30 metri sotto il livello Enedina. Non venne mai intitolato alcun livello alla figlia Amelia, moglie di Francesco Michele Guarrazzi.

I risultati della ripresa concorsero a definire i primi 50 anni della miniera, presentati nel corso dell’Assemblea societaria del 22 dicembre 1899: da 27,597 km di gallerie vennero estratte 1.512.000 di tout-venant al 19,58% di Pb, con una produzione di 296.034 tonnellate di Pb e 270.670 chilogrammi di Ag. Mentre vennero prodotte e vendute 340.141 tonnellate di galena, con una media del 72,19% di Pb ed una  resa di 245.548 tonnellate di metallo e 216.670 kg di Ag.

Con la blenda la produzione ebbe inizio nel 1892, a seguito della scarsità delle calamine in Europa e dopo 7 anni si raggiunsero le 6.774 ton, con una media del 45,41% di Zn. I ricavi raggiunsero  gli 83.078.541 lire, con spese pari a 63.556.392 lire e utili lordi di 19.522.149 lire, di cui distribuiti agli azionisti £.15.527.892 e £.3.994.257 reinvestiti in miniera.

Così si legge in una parte della relazione al bilancio presentata dal gerente Rossi Forni:

“… Siamo veramente lieti di potervi presentare lo stato della vostra azienda, fiorente più che mai oggi e promettente per l’avvenire; e questa nostra soddisfazione è tanto maggiore  in quanto possiamo esprimerla in occasione di due felici ricorrenze: nel 25° anniversario in cui il nostro comm. Castoldi attende con zelo alla direzione delle nostre miniere, e nel 50° anniversario della produzione delle miniere stesse, perché fu appunto nel 1850 in cui si vendette per la prima volta il minerale ricavato da Montevecchio…”

Dalla relazione dell’ing. Mossa al convegno degli ingegneri e architetti italiani, tenuto a Cagliari nel 1902, traiamo uno spaccato della realtà di Montevecchio, con 1500 operai,  circa la metà impegnata nel sottosuolo, un centinaio sono i fanciulli dai 12 ai 15 anni, una cinquantina di donne, perlopiù operano in laveria. La miniera è dotata di comodi e decenti alloggi sparsi in tutti i cantieri. Nel centro di Gennaserapis trovansi il palazzo della direzione (Sanna Castoldi), l’ospedale, la scuola elementare, la chiesa e gli alloggi per gli impiegati. Particolare riferimento viene fatto al serbatoio di acqua potabile con capienza di 4000 mc, con pilastri e archi, alimentato da una sorgente, d’estate fornisce dell’ottima acqua agli abitanti, ai servizi e all’ospedale che dispone di 30 letti, sale riservate, farmacia e abitazione del medico e dell’infermiere.

L’ing. Castoldi in vista di un aumento progressivo delle produzioni diede nuovo corso alla ricerca e l’ampliamento dei cantieri, comprese le laverie che dovevano far fronte al tenore dei grezzi che andava riducendosi. Per seguire e coordinare tutti questi lavori venne assunto un nuovo tecnico, l’ing. Elvio Mezzena.

Intanto si profilava un nuovo calo dei prezzi del piombo, che coinvolse anche a Montevecchio con la riduzione delle attività nei cantieri minerari, mentre si completavano importanti infrastrutture come l’impianto telefonico tra Montevecchio, Guspini, San Gavino e i centri vicini. Fu anche l’anno dell’elettrificazione che coinvolse da subito gli impianti di Sant’Antonio e Piccalinna compresi gli impianti di trattamento con alternatori mossi da motori a gas povero. Questo consentì il diffondersi delle perforatrici elettriche Siemens-Halske e quelle mosse ad aria compressa, che rendevano più celere la ricerca e la riduzione dei costi di abbattimento.

Il 1903 si apriva con la riduzione dei salari che creò malcontento tra gli operai in tutti i cantieri minerari della Sardegna, dando vita alle “Leghe di Resistenza”, a Montevecchio vi aderirono 1300 operai, l’87% della forza lavoro, che scese in sciopero per 7 giorni, dal 11 al 18 agosto per sostenere la richiesta di aumenti salariali del 10%, ma non solo, venne sottoposta alla direzione della miniera una serie di rivendicazioni che andava oltre la richiesta corporativa di aumento salariale. Costituita da un dodecalogo, le rivendicazioni spaziavano dagli aumenti salariali, alla parità di trattamento fra gli operai di Montevecchio e i minatori assoldati da società esterne che avevano assunto lavori minerari per la Montevecchio. Così fu rivendicato anche il riconoscimento dei costi di trasporto ai caballantes (i padroncini di carri a buoi che trasportavano i minerali da Montevecchio al porto di Cagliari), non ultimo la rivendicazione delle otto ore lavorative nel sottosuolo. Lo sciopero si concluse con una stretta di mano fra il direttore Ing. Castoldi e la delegazione degli operai.

L’anno successivo, 1904, dopo trenta anni di lavoro l’ing. Castoldi decise di ritirarsi chiamando a suo fianco l’ing. Sollmann Bertolio, suo genero, quattro anni prima aveva sposato la figlia Enedina. Al di la della parentela l’ing. Bertolio godeva di stima generale negli ambienti minerari.

Venne da subito ripresa l’estensione dell’elettrificazione su tutta la miniera,  avviata con l’ing. Mezzena, con il supporto di un suo allievo di Milano, l’ing. Arvedo Righi, portarono Montevecchio al primo posto fra le miniere elettrificate della Sardegna,  con 74 HP di potenza così distribuita: 20 per l’illuminazione, 35 per l’eduzione, 6 per il trattamento 10 per l’estrazione e 3 per la perforazione.

Nello stesso anno lasciava l’incarico anche l’ing. Mezzena, pare non rimpianto in quanto personaggio di carattere duro e imperioso,

L’ing. Bertolio nel 1905 assumeva la direzione della miniera, forte della sua preparazione tecnica (Insegnava arte mineraria all’università di Milano) e della ripresa dei costi del piombo e dell’argento poté riorganizzare i cantieri e creare nuovi alloggi per il personale, pare sotto la spinta di Ignazia Sanna detta la Contessa Rossa, ormai in rotta con il marito Solinas, anche lei con la sorella Zely, impegnate nel sostegno e benessere della “sua gente”, così come il padre Giovanni Antonio chiamava gli operai di Montevecchio, ma anche attente alla produttività in quanto detentrici delle azioni societarie paterne. Quest’aspetto si può rilevare dalla relazione del bilancio del 1909: “… Altro rimedio parziale al nuovo stato di cose creato con la legge sul riposo festivo ci sarà offerto dalla costruzione delle case operaie in miniera; in queste ultime campagne abbiamo costruito oltre 100 abitazioni, e occorrerà perseverare in tale via, avendoci l’esperienza dimostrato che l’operaio residente in miniera fa solamente le feste imposte, mentre quello che dimora lontano sovente fa vacanza la vigilia e quasi sempre nel dopo festa”.

Questi erano gli anni in cui l’ing. Bertolio, scosso da un grave incidente avvenuto in miniera ove persero la vita, a causa di un distacco di un lastrone, 4 operai e il ferimento di altrettanti 4, si prodigò per un miglioramento dell’infortunistica e della prevenzione, così come si preoccupò delle condizioni previdenziali dei suoi operai. In sintonia con la protesta del direttore della vicina miniera di Ingurtosu, Lord Brassey, contestò la pensione ai lavoratori che avevano compiuto i 60 anni, in quanto troppo avanzata per i minatori. Della vicina miniera cercò di equiparare i salari che risultavano più favorevoli e i centri d’istruzione elementare per i minatori analfabeti. Si curò di migliorare l’ospedale chiamando un nuovo medico dorgalese Attilio Mariani, ricordato da migliaia di minatori e delle loro famiglie per la sua dedizione e amore per il difficile compito assegnatoli.

Il rinnovo dell’elettricità sulla miniera venne eseguito nel 1910 presso la centrale elettrica di Sciria con un gruppo elettrogeno di 250 HP. La sala macchine veniva così dotata di 600 cavalli a gas povero con una riserva di 150 HP, attraverso un motore diesel. Gli alternatori generavano un corrente trifase a 500 V con tre linee per tutti i cantieri di levante, mentre un quarto quadro suddiviso su due linee servirà l’abitato di Gennas e i cantieri di ponente di Sanna e Telle.

Questa grande opportunità oltre che favorire l’ulteriore ricerca che raggiunse i 3,5 km nell’anno portò nel 1912 ad affiancare il pozzo Sanna con una sua laveria, l’officina meccanica, falegnameria e locali di servizio. Il nuovo impianto venne alimentato con un nuovo motore a gas di 170 HP, posto nella centrale di Sciria. Furono tali e tante le innovazioni nelle tre concessioni che il bilancio 1912-13 consentì un dividendo record di 1.400 lire per azione.

Con lo scoppio della prima Guerra Mondiale, Montevecchio andò in crisi, con la drastica riduzione dei permessi di esportazione non rimase che la manutenzione dei cantieri e quel poco che si estraeva veniva stoccato, a differenza della vicina Ingurtosu che non sentì la crisi in quanto Lord Brassey disponeva della fonderia Pertusola ove poteva trasferivi i minerali mantenendo attiva e produttiva la sua miniera, molti operai di Montevecchio furono licenziati. Nel settembre del 1915 veniva fermata anche la centrale elettrica per l’eccessivo costo dovuto alla riduzione dei consumi. L’energia necessaria venne approvvigionata dalla centrale termica di Porto Vesme mediante una linea di 15.000 volt, proveniente dalla vicina Ingurtosu. Ma non solo, furono richiamati alle armi anche l’ing. Bertolio, sostituito dall’ing. Righi e lo stesso dott. Mariani dovette lasciare Montevecchio, proprio nel momento in cui i due personaggi avevano intrapreso la lotta alla malaria. Nell’area mineraria la popolazione  raggiungeva  1500 abitanti e  la società spendeva 40.000 annui per l’acquisto del chinino e altre 15.000 per le cure ospedaliere, nulla di simile avveniva nei comuni viciniori per carenze finanziarie.

Furono momenti difficili con il calo di dipendenti sceso nel 1916 a 600 unità,  un’ulteriore riduzione nel 1918 a 470, mentre Ingurtosu era in piena attività tanto che lord Brassey chiamò a dirigere la miniera d’Ingurtosu e Gennamari l’ing. Arvedo Righi.

Dobbiamo aspettare la fine della guerra perché Montevecchio riprendesse le attività, nel 1919 rientrava dal servizio militare l’ing. Bertolio, intanto a Londra moriva Lord Brassey e l’ing. Bertolio propose agli azionisti di acquistare la vicina miniera posta in vendita dalla famiglia Brassey, proposta rigettata per mancanza di disponibilità finanziarie.  Venne acquistata dalla società franco spagnola del Gruppo Peñarroya, poi dopo 45 anni passerà alla Montevecchio.

Antichi Scavi

L’attività riprese gradualmente, venne dismessa  la centrale elettrica di Sciria e le macchine a vapore sostituite e alimentate elettricamente da una cabina che riceveva direttamente l’energia a 15.000 V dalla Soc. Tirso.

Era un periodo costellato di contestazioni e per sino di sabotaggi con agitazioni e sommosse in tutto il bacino dell’iglesiente, Montevecchio non arrivò a tali estremi ma l’inquietudine era forte, alimentata dai bassi salari fermi da tempo, dal crollo del prezzo dei minerali, dall’aumento dei costi di energia elettrica e degli esplosivi.

Dobbiamo attendere il 1922 con l’assestamento del dopoguerra che consentì alla lira di stabilizzarsi, i minerali ripresero nuova quotazione e questo favorì un primo riconoscimento salariale ai minatori e nuova produzione. Le agitazioni cessarono e pian pianino vennero richiamati al lavoro buona parte delle maestranze tanto che a fine anno si contavano nuovamente 1200 presenze.

Durante quest’anno di ripresa veniva a mancare il Direttore Generale Ing. Alberto Castoldi che moriva all’età di settantaquattro anni, il 16 maggio 1922.

Il 22 di ottobre Giovanni Antonio Castoldi, detto il Principino, figlio di Zely Sanna, sposava Estella Macchi di Cellere, chiamata anche Donna Estella.

L’ 8 aprile del 1923 moriva per infarto anche l’ing. Sollmann Bertolio, reduce dall’assemblea della società che l’aveva riconfermato gerente con il banchiere dott. Marcello Migoni, mentre alla direzione generale veniva richiamato l’ing. Arvedo Righi.

La gerenza del Migoni nasceva in un momento particolare dell’economia mondiale, con i capitali che dall’agricoltura si spostavano verso l’industria e in Italia si sollecitava lo sviluppo delle risorse locali e le industrie minerarie venivano spinte a svilupparsi e integrarsi con la metallurgia, diversificando le produzioni e gli investimenti.

Questo favorevole momento convinse gli azionisti della Montevecchio a dare mandato al Migoni di valutare le possibili espansioni della società, nello spirito della nuova economia. Da subito si guardò alla Monteponi, considerata “consorella e concorrente”, in quel momento fortemente  impegnata  nel settore  metallurgico e nello studio dei problemi che interessavano anche la Montevecchio,  per cui non fu difficile convincere gli azionisti.

La chiusura del bilancio in positivo e la ripresa delle produzioni, legato anche a una pace sindacale, consentì alla Montevecchio nel 1924 di acquistare altre 3.000 azioni della Monteponi.

Questo nuovo corso allargò le partecipazioni tanto che i titoli della Montevecchio passarono da 6 a 18 milioni, così ebbe inizio l’espansione con l’acquisto da parte della Monteponi delle miniere di Monte Zippiri e Monte Ollastu, mentre Montevecchio prendeva S’acqua Bona, le vecchie miniere del Sarrabus e quelle di antimonio di Su Suergiu. Si pensava che con i nuovi capitali le miniere potevano riprender a produrre importanti utili, le quote del piombo, lo zinco e l’argento erano in risalita, per cui pare che anche la politica spingesse Montevecchio all’espansione, con l’acquisto delle miniere chiuse per l’abbandono delle società straniere, considerandole importanti azioni di salvataggio. La linea espansiva però preoccupava l’ing. Righi, perché la Montevecchio era ancora potenzialmente produttiva e privarla di capitali in un momento di  ripresa dei lavori che interessavano l’approfondimento di tutti pozzi e le nuove coltivazioni, sarebbe stato rischioso.

La situazione però sembrava rosea, il bilancio si chiudeva in attivo, con la distribuzione di lire 350 a azione e un ‘aumento delle paghe. Sotto questa nuova euforia l’Assemblea del 22 ottobre 1925 aumentava di nuovo il capitale portandolo da 10 a 20 milioni, cambiando anche la ragione sociale, da Società in accomandita per la coltivazione della miniera argentifera detta di Montevecchio in Miniera di Montevecchio, società in accomandita per azioni.

L’euforia però era minata dalle continue variazione nella quotazione dei metalli tanto che il 1926 registrò una nuova flessione, ma pare non preoccupò più di tanto gli azionisti in quanto l’ispettore superiore del Corpo Reale delle Miniere l’ing. Dompé, scriveva: ..Non mai, dopo Quintino Sella, le questioni della utilizzazione dei giacimenti sono state oggetto come ora di quotidiano interesse da parte dei Ministri competenti…

Erano gli anni della nascita dell’Agenzia Generale italiana dei Petroli, di Agip, delle iniziative per le industrie dell’alluminio e dell’Istituto Sperimentale per i Combustibili italiani.

In questo clima il Ministero dell’Economia Nazionale pregò la Montevecchio di acquisire la miniera di Malfidano, in quanto i francesi non erano più interessati alla gestione. Peraltro vi fu un parere positivo anche dall’Ing. Righi che ebbe modo di visitarla. Ormai la Montevecchio era nel pieno della sua espansione tanto che sottoscrisse quote di capitale per un terzo della nascente Società Elettrica Sarda. Da buon banchiere il Dott. Migoni per sostenere l’espansione proponeva un ulteriore aumento del capitale o l’emissione di un prestito. L’Assemblea straordinaria del 25 novembre 1926 optò per la seconda e di continuare nella partecipazioni finanziarie, extra Montevecchio, facendo ricorso al credito bancario.

Eravamo ormai alle soglie dell’autarchia e la politica spingeva per i consumi italiani tanto che le produzioni vennero sollecitate anche a discapito della ricerca.

Il 1927 non fu un problema per Montevecchio, grazie agli interventi di ricerca già programmati poté scoprire una vena di galena dello spessore di metri 1,50 e nell’anno si raggiunsero le 17.530 t.

L’anno successivo proseguiva il ribasso dei costi dei minerali però il gerente non si scompose e proseguì nella politica espansionistica, completò l’acquisizione di Malfidano, quella di lignite di Bacu Abis e la metallifera di Candiazzus. Non solo, ma avviò sondaggi carboniferi nella Nurra, nella zona di Alghero e Porto Conte.

Cominciava a montare nella compagine direttiva una forte preoccupazione per le continue esposizioni finanziarie con le banche e l’operazione venne interrotta. A fine anno i risultati ancora positivi di Montevecchio rincuorarono l’Assemblea tanto che venne ancora modificata la ragione sociale per dare un’assetto moderno all’impresa che passò da Miniera di Montevecchio, società in accomandita per azioni a Miniere di Montevecchio società anonima.

Questa scelta non piacque al gerente Migoni e si dimise, per la sua mania di grandezza in sei anni aveva speso oltre 300 milioni di lire. Ormai la Montevecchio, guidata dal presidente Giovanni Antonio Castoldi detto Ninì, si era espansa in nuovi settori assorbendo tutte le energie operative e gran parte delle risorse finanziarie stavano intaccato la sua solidità, pur a fronte di produzioni ancora di livello. La certezza e la ricchezza della miniera consenti anche per 1929 la distribuzione di utili, anche se di valore inferiore all’anno precedente.

La situazione ancora florida della miniera non bastò ad arginare la tempesta del 1930 che coinvolse tutta l’economia mondiale, le imprese di ogni settore e dimensioni compresa la Montevecchio.

Fu l’occasione per la signora Zely Castoldi di riproporre, perché mai attuata, ma era nell’intento di suo padre Giovanni Antonio Sanna, la costruzione di una fonderia per il piombo, indicata peraltro come uno degli scopi sociali, all’atto costitutivo della società Montevecchio.

Il tema venne accolto e affrontato fra i dirigenti delle due Società che ormai costituivano il sodalizio della Montevecchio, agli inizi del 1929 fra l’amministratore delegato della Montevecchio ing. Domenico Giordano e l’amministratore delegato della Monteponi ing. Francesco Sartori. Si mise mano da subito al progetto, in perfetta intesa e reciproco rispetto che gli impegnò per quasi un anno. Venne poi redatto un verbale con il minuzioso elenco degli accordi, inseriti successivamente nel rogito notarile del 17 giugno 1930 con il notaio Castellini di Roma, dando vita alla Società Italiana del Piombo. Con un capitale di 10 milioni, 7 a carico della Montevecchio e 3 della Monteponi, fu chiamato alla Presidenza Giovanni Antonio Castoldi, già presidente della Montevecchio, amministratore delegato l’ing. Domenico Giordano della Montevecchio e tre consiglieri espressi dalla Monteponi, ing. Arvedo Righi, ing. Francesco Sartori e il senatore dott. Eugenio Rebaudengo (presidente Monteponi). L’ubicazione dell’importante fonderia che avrebbe ancora, per diversi anni, sostenuto l’attività estrattiva di Montevecchio, venne localizzata a San Gavino presso la stazione delle Ferrovie dello Stato. Incaricato alla progettazione fu il trentaduenne ing. Giovanni Rolandi che aveva progettato e costruito l’impianto elettrolitico per lo zinco a Monteponi.

Alla fine del 1930 l’ing. Arvedo Righi lasciava Montevecchio sostituito dall’ing. Patessi.

Nel frattempo gli investimenti operati e voluti dal dott. Migoni non resero quanto si sperava tanto che Malfidano e Candiazzus vennero chiuse, Bacu Abis mantenne una produzione di lignite solo per le ordinazioni della Società Elettrica Sarda, mentre si manteneva ancora in esercizio la miniera di antimonio di Su Suergiu, nonostante il calo dei prezzi e la concorrenza estera che si faceva più agguerrita.

Le suddette miniere non furono le sole a essere acquistate attraverso la politica espansionistica del Migoni, si presume concorsero a questa scelta anche spinte politiche tendenti ad isolare gli eredi Sanna Castoldi, con la convinzione che avrebbero irrobustito Montevecchio. Furono ben trentadue le miniere sarde acquisite e purtroppo tutte deficitarie: Bacu Abis (Gonnesa), Bacu Arrodas (Muravera), Baueddu (Iglesias-Fluminimaggiore), Cabitza (Iglesias), Campera (Iglesias), Canali Bingia (Iglesias-Flumini), Candiazzus (Iglesias-Flumini), Caput Aquas (Iglesias-Serbariu) Corti Rosas (Ballao), Cortoghiana (Serbariu), Enna Sa spina (Flumini), Fenugu Sibiri (Gonnosfanadiga), Genna Flumini (San Vito), Giovanni Bono (San Vito), Malfidano (Flumini), Martalai (Villassalto)  Masaloni (San Vito), Monte Lapano (Teulada), Monte Narba (San Vito),  Monte Scorra ( Iglesias Gonnesa), Mortuoi (Iglesias), Nuraxeddu (Serbariu), Pediattu (San Vito), Piolanas (Iglesias), Pira Roma (Iglesias-Flumini), Planu Dentis (Iglesias-Flumini), Planu Sartu (Flumini), S’Acqua Bona (Flumini), Sa Mina (Ballao), S’Ega su Sollu (Flumini), Serra Trigus (Iglesias-Flumini), Sos Enattos (Lula), Su Suergiu (Villassalto).

Questa situazione trascinò nelle difficoltà anche la miniera di Montevecchio e la Società non riuscì a colmare le perdite delle consociate e dei titoli industriali, per la prima volta s’iscriveva in bilancio una perdita pari a £. 8.876.972.

Carica di debiti la Montevecchio aveva necessità di denaro fresco per far fonte alla mole di acquisti, riorganizzazione e passività, si chiese subito un aumento di capitale che gli azionisti non sottoscrissero perché non in grado di farlo ed il 1931 si apriva con le dimissioni del presidente Giovanni Antonio Castoldi. Ormai si puntava all’entrata in funzione della fonderia di San Gavino per uscire dalla grave situazione e il 31 di marzo l’assemblea chiamava alla presidenza l’ing. Bernardino Nogara, esperto e di grandi capacità manageriali, reggeva in quel periodo le finanze della Città del Vaticano e sedeva nel consiglio di amministrazione dell banca Commerciale italiana. Senza grosse difficoltà ottenne due prestiti per un importo complessivo di 15 milioni ma la Banca pretese oltre le cambiali anche 27.000 azioni della Società Elettrica Sarda e 8.000 azioni della Italpiombo, la fonderia di Sangavino. Fu trattato un ulteriore prestito di 10 milioni con la Banca che in cambio chiedeva azioni di Montevecchio ma gli azionisti respinsero mandando a monte la trattativa. A seguito del diniego l’Ing. Nogara si dimise e venne richiamato alla presidenza il Giovanni Antonio Castoldi.

La miniera nonostante tutti gli scossoni societari ed economici manteneva una buona produzione tanto che nell’esercizio del 1931 chiudeva con 20.578 t di galena e 5.262 t di blenda, ma il bilancio economico si chiuse con 330.879 di passivo e per la prima volta in 74 anni gli azionisti non percepirono il dividendo.

L’inizio del 1932 registrava la scomparsa, il 23 di gennaio, di Zely Sanna, la maggior azionista, mentre sulla società incombeva l’urgente ricerca di liquidità, venne da subito interessato l’Istituto Mobiliare Italiano per un prestito di 60 milioni ma con esito negativo, così avvenne con il successivo coinvolgimento della banca San Paolo di Torino. Come ultima soluzione si pensò a una fusione con il socio Monteponi e una contestuale richiesta all’Istituto Immobiliare italiano (IMI) per un prestito risanatore, 60 milioni, ma il 1° dicembre la risposta fu negativa, in quanto reputavano il gruppo proprietario inaffidabile e afflitto da una forte conflittualità interna. Per tutta risposta i sindacati fascisti, viste anche le difficoltà del pagamento dei salari, fecero porre sotto sequestro parte degli impianti della miniera a garanzia degli stipendi. Per non incorrere nel fallimento, visto che la miniera era ancora produttiva e da tempo era corteggiata dalle società minerarie più importanti d’Europa, come la Peñarroya, la Rio Tinto e l’italiana Montecatini, il 13 di dicembre il Castoldi depositava la richiesta al Tribunale civile e penale di Roma per un concordato preventivo.

La risposta tardò ad arrivare e gli amministratori non riuscivano a governare la situazione, sino a che il Governo non chiamò l’ing. Guido Donegani, presidente della Montecatini, allora in piena espansione, invitandolo a rilevare la Montevecchio. La scelta mise in allerta il socio Monteponi che temeva l’ingresso dell’importante società italiana nel campo dei metalli non ferrosi, per cui si adoperarono per convincere l’ing. Donegani ad accettare il rilevamento della Montevecchio attraverso una società paritetica: 50% Montecatini e 50% Monteponi.

Gli sviluppi dell’accordo preventivo si chiusero l’ 8 settembre del 1933 con la cessione della società Montevecchio alla “Montevecchio Società Anonima Mineraria” che ne manteneva il nome, perché ancora prestigioso sul mercato, con la seguente ripartizione: le miniere  andavano alla Montecatini e la metallurgia alla Monteponi. I verbali di consegna vennero firmati a Montevecchio il 2 ottobre dai due direttori: Alberto Petessi uscente e Luigi Valsecchi entrante.

Si concludeva così dopo 85 anni la Montevecchio dei Sanna e degli ultimi gestori, Migone, Castoldi e Bertolio.

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