Aprile 26, 2024

L’Italia e Cagliari ai tempi dello scudetto: così spuntò Rovelli_di Paolo Fadda

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Andare indietro nel tempo di cinqunatuno anni, sfogliando all’indietro l’album della memoria, è operazione che suscita, insieme, nostalgia e rammarico, per quel che s’è lasciato e per quel che s’è perduto. Chi scrive, non ha mai tenuto un diario, né ha conservato le agende di quegli anni lontani, per cui – nel riordinare questi ricordi – dovrà far ricorso soltanto alla propria memoria, sperando che non le nasconda dei trabocchetti.

I giorni di cinquantun’anni or sono, per fare un po’ di calcoli, cadono tra il 1969 ed il 1970, allorquando al governo del Paese vi era Mariano Rumor, uno dei “grandi” dorotei, ma la bussola della politica sembrava essere nelle mani sapienti di un leader democristiano come Aldo Moro. Proprio in quegli stessi giorni, anche all’interno del già monolitico partito comunista togliattiano, s’era registrata la scissione di Luigi Pintor, Rossana Rossanda e dell’intero gruppo de “il Manifesto” (che anche a Cagliari aveva i suoi adepti),  mentre le piazze della contestazione giovanile s’infiammavano per le canzoni “pacifiste” di Joan Baez e per le opere”buffe” di Dario Fo.

Nino Rovelli con i dirigenti del CIS e Pianelli, all’epoca presidente del Torino

In Sardegna era presidente il democristiano Giovanni Del Rio ed a Cagliari il Sindaco era  Paolo De  Magistris, a capo di una coalizione di centro-sinistra, ed anch’io, allora, sedevo in Consiglio alla guida del gruppo democristiano, il partito di maggioranza. Era stata – quella tra il 1964 ed il 1970 – una consiliatura municipale piuttosto movimentata, anche perché aveva visto la fuoriuscita dal vertice del Comune di uno “storico” Sindaco come il professor  Giuseppe Brotzu, a cui la città tanto doveva. Ma nella fredda aula del palazzo di via Roma, tra uno scambio salace di battute fra Goffredo Angioni e Aldo Orani ed un polemico confronto fra Ciccio Macis e Gianfranco Anedda,  s’erano intelligentemente impostati, grazie alle linee operative del piano regolatore di Enrico Milesi e alle dissertazioni cultural-politiche dell’assessore Tonino Defraia e dell’oppositore Aldo Marica, gli equilibri necessari per un più armonico sviluppo urbanistico e per la regolamentazione delle strutture direzionali della città. 

I problemi cittadini erano peraltro tanti, anche perché alcune infrastrutture storiche, come quella dei trasporti pubblici urbani, erano andate in crisi, e la vecchia STS (la società dei tramvai) produceva ormai, con i suoi mezzi verdi e bianchi su rotaia, più debiti che servizi. La municipalizzazione fu allora il banco di prova di una politica comunale che – come nel varo progettuale dell’asse “mediano”, asset fondamentale per una più rapida viabilità cittadina – cercava di costruire la città del domani e del domani l’altro.     

Cagliari, tra l’altro, sembrava essere in mezzo al guado, tra l’ambizione di raggiungere i trecentomila abitanti (ed assidersi fra le città metropolitane del Paese) e le ristrettezze di un territorio comunale, divenuto il vincolo maggiore per un’urbanistica sostenibile. Anche il suo destino pareva essere in discussione, nelle discussioni dei caffè (dal “Torino” fino all’ ”Europa” o da “Marabotto”) come nell’aula severa di Palazzo civico: se dovesse essere orientato verso un futuro di città d’industrie o se, al contrario, si dovessero privilegiare i suoi tanti atouts paesaggistici, per aspirare ad un futuro in chiave turistica; o, ancora, se i suoi stagni, di ponente e di levante (il Santa Gilla ed il Molentargius), dovessero continuare ad esserne le linee “di frontiera” del suo sviluppo territoriale o, invece, dovessero essere colmati, almeno in parte, per poter dare nuovi ettari all’espansione urbana. 

Ed anche le strutture ospedaliere, con l’acquisizione delle caserme di Is Mirrionis al demanio comunale, avrebbero avuto allora il primo, importante incremento – dopo tanti anni di sofferenze con i letti nelle corsie e un’assistenza medica da terzo mondo – con  la nascita di quel complesso che va sotto il nome della “Santissima Trinità”.

Tra l’altro, non s’era ancora attutito il grido d’allarme che, sul quotidiano locale, l’intellettuale Michelangelo Pira aveva gettato in faccia ai cagliaritani, qualche anno prima: Cagliari è brutta! E non lo è per un deficit di valenze estetiche, ma perché ha nel disordine, nella sciatteria e nelle banalità del suo assetto, le sue caratteristiche più evidenti. Giudizio o provocazione che fosse, quell’osservazione aveva colto in un certo senso nel vero, proprio perché s’andava assistendo al lento declino di quella che era stata, come élite dirigente, la borghesia illuminata che nei primi quattro decenni del ’900 – da Ottone Bacaredda ad Enrico Endrich – aveva “fatto” la Cagliari moderna.

Basti ricordare, per rendersene conto,  le differenze che passano tra l’eleganza stilistica del Palazzo di città o del Terrapieno e quei nuovi “mostri” creati da un’edilizia “da barboni” (per dirla con Aldo Rossi). Avrebbe notato un salace analista della società cagliaritana che in città s’era fatto il pieno di mes’ominis ed omineddus, mentre sembravano in via d’estinzione is ominis.          .              Per altri versi, l’ambiente cittadino era rimasto ancora “provincialotto”, con i suoi riti ed i suoi vezzi antichi, ed infatti non erano spariti “is oreris”, i perdigiorno, che affollavano i tavolini dei caffè di via Roma (vi trovavi sempre, per il quotidiano aperitivo, Past’ ’e latti,  Su meri ’e su Memphis e Paneri tristu  (che poi erano i sopranomi di stimati cittadini, del ceto bon vivant). Così l’intellighentzia cittadina si ritrovava attorno al professor Nicola Valle, noto come Pinzellu per via dell’abbondante chioma, per celebrare ed applaudire le sue dotte letture dantesche nel sottopiano del Municipio, mentre Cicito Alziator non aveva posto ancora fine al fantasioso campionario di aggettivazioni per la sua Cagliari (del sole, degli odori, ecc.), all’interno dei suoi articoli che arricchivano la “terza pagina” dell’Unione Sarda, sempre ben curata da Gianni Filippini.

S’era però perdute per strada le serate al “Cineclub”, un po’ perché erano emigrati altrove i promotori Aldo Assetta e Peppino Fiori, ed un po’ – va detto – per gli strascichi derivanti dall’esilarante battuta fantozziana (una cagata mostruosa!) sul “capolavoro” del cinema sovietico, “La corazzata Potiomkin”…

Nei bar di Villanova e di Sant’Avendrace, prima ancora del “camparino”, era ancora la gazzosa Puddu a farla da padrona, sia come additivo alla birra Ichnusa o a sa tassa ’e binu nieddu (si ricordano in proposito alcuni versi scanzonati di un anonimo che dicevano pressappoco così: «è la gazzosa spregevol cosa, ma se col vino mesci gazzosa cambia la cosa…».

Per la verità la città appariva interessata da forti cambiamenti, si modificavano le abitudini e le liturgie cittadine, quelle, ad esempio, della “torta russa” domenicale d’una scomparsa ditta “Meloni & Ramondetti” nella via Balle, mentre conquistavano posizioni, fra i golosi, le dolci prelibatezze di “Chez le negre” in via Sonnino; ma in via Roma sa passillara non era più quella d’una volta, e nuovi luoghi d’incontro si spalmavano per una città sempre più “multipla” e sempre più oggetto di forti immigrazioni.

In Casteddu c’esti mera da traballai, sosteneva chi, da Seui o da Tramatza, si faceva cagliaritano per acchiappare una sorte meno incerta. Era anche questa la dimostrazione che era l’aria “di Rinascita” ad ossigenare le iniziative e le voglie dei cagliaritani. Vi era infatti in città molto entusiasmo e altrettanta disponibilità nel voler creare le condizioni per una vittoria duratura e definitiva sul sottosviluppo economico che da diversi secoli aveva allontanato la società sarda dagli standard continentali.   

Proprio su questo fronte dell’economia, che è poi quello più congeniale a questo mio “amarcord”, s’andavano affermando delle attività innovative di taglio europeo (quelle, ad esempio, della chimica del petrolio e della metallurgia) mentre altre, quelle più tradizionali come le minerarie, scontavano forti carenze di competitività sui mercati internazionali ed apparivano in forte declino. 

Si fa cenno a questo, perché chi scrive venne allora investito, da parte del governo regionale, della guida dell’Ente Minerario Sardo, la holding pubblica incaricata di presiedere non solo alla strategia industriale del settore ma anche al possibile rilancio operativo delle aziende estrattive.Ed è proprio a quel duplice binario, in ascesa e in discesa, che si fa riferimento, perché maturai l’idea di trovare delle possibili sinergie, integrazioni e valorizzazioni fra quella nuova chimica ed i minerali presenti nel sottosuolo sardo non disomogenei ai cicli delle lavorazioni petrolifere, come le fluoriti e le bariti, ma non solo. 

Valutai quindi l’opportunità di coinvolgere il massimo esponente di quella nuova industrializzazione, l’ingegner Nino Rovelli, il patron del gruppo Sir (Sarda industrie resine) che, partendo dal lucido da scarpe Brill aveva creato il primo grande impero chimico del Paese. Non lo conoscevo personalmente, ma con lui ero stato coinvolto in un episodio curioso. Di ritorno da Milano, nella “first class” di un aereo Caravelle, mi ero trovato seduto a fianco di quel personaggio che i giornalisti trovavano molto somigliante a Clark Gable. 

Fu lui, ricordo, a prendere la parola, dimostrando di conoscermi. Dall’avvio della conversazione, capii che m’aveva scambiato per altra persona, ma decisi di stare al gioco. In effetti, m’aveva individuato come uno dei fratelli Beretta, titolari di uno stabilimento tessile a Villacidro, legatissimi alla Snia, concorrente in qualche modo con la sua Sir. Mi propose, con allettamenti vari, alleanze e sinergie, a cui risposi sempre a monosillabi, mantenendo però l’equivoco. 

Fui presentato a lui, ufficialmente, mesi dopo ad un’assemblea del Cis, come presidente dell’Ente minerario, e fu in quell’occasione che gli raccontai l’episodio del viaggio con il Caravelle. Si mise a ridere per lo scherzo, e mi propose di trovarci a cena, quella stessa sera, “da Bruno”, in via Cavour. Ebbi così modo di illustrargli la mia idea e ne dimostrò interesse, tanto da propormi un incontro a Milano, nel suo quartier generale con i suoi più stretti collaboratori. Cosa che avvenne e fu anche fertile di programmi e di iniziative comuni, il cui probabile successo – purtroppo – venne vanificato da quegli eventi che la storia economica ricorda come la guerra del Kyppur (1972) che, portando alle stelle il prezzo del petrolio, decreterà la parabola discendente di quel gruppo industriale. 

Per chi ha la memoria lunga, essere amico di Rovelli comportava qualche rischio politico, anche perché quell’ingegnere brianzolo, con le sue imprese e la sua aggressività imprenditoriale, era stato capace di dividere non solo la politica dei partiti, ma anche la finanza delle grandi holding nazionali, dato che le sue escalation societarie avevano fatto salire la mosca al naso ai vertici dell’Eni e della Montedison (Girotti e Cefis in primis). 

Ben si capisce, quindi, come fosse personaggio assai poco amato qui da noi, anche perché il suo potere sembrava non avere limiti ed alcune sue “vicinanze” con gli uomini del governo d’allora davano non poco fastidio alle opposizioni, in specie al PCI ed alla sua collegata CGIL. Ma, forse, osservando come va l’industria chimica oggi, quel personaggio meriterebbe d’essere rivalutato e rimpianto, assolvendolo – magari – per certe sue incontinenze. Proprio perché con lui, ad esempio, si costruivano qui da noi degli impianti per la dissalazione dell’acqua che andavano in Israele e in tutta l’Aia minore, mentre oggi, per averli, bisogna rivolgersi a Gerusalemme o a Tel Aviv.  

D’altra parte, essere amati e rispettati, non è certamente, dalle nostre parti, una condizione consueta per imprenditori ed industriali di successo, sol che si ricordi – affiancandola a quella di Rovelli – la coetanea vicenda di Paolo Marras, quell’intraprendente ingegnere cagliaritano che, con la sua industria cartaria e con i suoi innovativi impianti di rimboschimento produttivo, si sarebbe visto tagliare l’erba (cioè progetti e risorse) sotto i piedi, proprio dai suoi stessi corregionali.

Ci sono quindi, nello sfogliare queste pagine di memoria, aspetti noti e meno noti di un tempo passato. Li si è voluti rievocare, quasi fossero pagine di diario, in una sorta di “amarcord”, proprio per ricordare “com’eravamo”.

dalla rivista Cagliari Calcio – 40anni storici – n°1 Marzo 2010

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