Dicembre 14, 2024

Gramsci: l’istinto della ribellione e la forza organizzata_di Enrico Berlinguer

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50° ANNO/LE GRANDI PAGINE DEL CAGLIARITANO

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Non si può dire certamente che non conservi piena validità, ancora oggi, gran parte dell’insegnamento di Gramsci. Ma due soprattutto ci sembrano di scottante attualità: il riscatto delle popolazioni meridionali e insulari e l’unità delle forze democratiche e popolari.

Prima che il fascismo gli turasse la bocca e Mussolini impedisse a quel cervello di funzionare, Gramsci, nel suo unico intervento in Parlamento, trattò la questione meridionale con chiare e quasi profetiche affermazioni di bruciante quotidianità.

Sono parole testuali: «In Italia il capitalismo si è potuto sviluppare in quanto lo Stato ha premuto sulle popolazioni contadine specialmente nel Sud. Voi — continua rivolto ai fascisti — oggi sentite l’urgenza di tali problemi perciò promettete un miliardo per la Sardegna; promettete lavori pubblici e centinaia di milioni a tutto il Mezzogiorno, ma per fare opera seria e concreta dovreste cominciare col restituire alla Sardegna i cento – centocinquanta milioni di imposte che ogni anno estorcete alla popolazione sarda.

Proseguendo nella sua requisitoria, Gramsci si sofferma sulle contraddizioni del sistema capitalistico italiano asserendo che su questo terreno si formerà necessariamente, nonostante tutte le leggi repressive, nonostante le difficoltà di costituire grandi organizzazioni, l’unione degli operai e dei contadini contro il nemico comune.

E avviandosi alla conclusione nella perorazione aggiunge: « Voi potete conquistare lo Stato, potete modificare i codici, voi potete cercar di impedire alle organizzazioni di esistere nella forma in cui sono esistite fino adesso, non potete prevalere sulle condizioni obiettive in cui siete costretti a muovervi. Voi non farete che costringere il proletariato a ricercare un indirizzo diverso da quello finoggi più diffuso nel campo della organizzazione di massa. Ciò noi vogliamo dire al proletariato e alle masse contadine da questa tribuna: che le forze rivoluzionarie non si lasseranno schiantare».

Senza riandare a tutte le vicende della vita di Gramsci, vorrei solo soffermarmi su tre momenti che sono determinanti nella formazione della sua personalità. Eccoli: il suo essere sardo; il suo incontro con la classe operaia torinese; l’avere colto tutta la novità storica e mondiale della Rivoluzione d’Ottobre e del pensiero di Lenin.

Tutta la elaborazione gramsciana è un filo che si dipana dalla sua terra natale, dalla vita sarda, dallo spirito sardo. Qui, a contatto con la miseria della sua gente — che anch’egli patì — Gramsci divenne prima un ribelle, ma un ribelle che ben presto seppe prendere contatto con il movimento operaio e socialista. Il rivoluzionario nasce dal ribelle, come egli stesso scrisse.

E Berlinguer cita: «Che cosa mi ha salvato dal diventare completamente un cencio inamidato? L’istinto della ribellione, che da bambino era contro i ricchi, perché non potevo andare a studiare, io che avevo preso dieci in tutte le materie nelle scuole elementari…. Esso si allargò a tutti i ricchi che opprimevano i contadini della Sardegna. E io pensavo allora che bisognava lottare per l’indipendenza nazionale della regione. ‘Al mare i continentali’: quante volte ho ripetuto queste parole…».

La Sardegna era dunque alla radice del suo pensiero politico ed egli, anche dopo averla lasciata, continuerà non solo ad amarla, ma a parlare di essa, riferendosi specialmente alla vita del popolo.

Berlinguer cita una lettera di Gramsci. «In che lingua parla? chiede alla sorella Teresina in una lettera dal carcere del 1927, interessandosi alla educazione dei nipotini — Spero che lo lascerete parlare in sardo… È stato un errore, per me, non avere lasciato che Edmea (figlia di suo fratello Gennaro), da bambinetta, parlasse liberamente in sardo.

Ciò ha nuociuto alla sua formazione intellettuale e ha messo una camicia di forza alla sua fantasia. Non devi fare questo errore con i tuoi bambini. Intanto il sardo non è un dialetto, ma una lingua a sé quantunque non abbia una grande letteratura ed è bene che i bambini imparino più lingue… Ti raccomando, proprio di cuore, di lasciare che i tuoi bambini succhino tutto il sardismo che vogliono e si sviluppino nell’ambiente naturale in cui sono nati».

Ho voluto citare solo due manifestazioni fra le tante che testimoniano quanto Gramsci tenesse alla sua origine sarda, quanto vivi rimasero sempre i suoi legami sentimentali con la Sardegna e il suo interesse intellettuale e politico per la vita dell’isola. Si potrebbero anche ricordare, ad esempio — il suo interesse e la sua iniziativa verso il Partito sardo d’Azione.

Sta di fatto che Gramsci ebbe sempre vivissimo il senso dei caratteri specifici della storia e della vita sarda, anche in ciò che le distinguevano dal resto del Mezzogiorno. Ma non meno importante è ricordare che proprio dalle condizioni di esistenza dei sardi venne a Gramsci l’impulso a porre in modo nuovo, insieme alla questione sarda, l’intera «questione meridionale».

In un breve cenno autobiografico — negli scritti dal carcere — Gramsci ricordò però anche lo sforzo che egli volle e dovette compiere per «superare un modo di vivere e di pensare arretrato quale è quello che era proprio di un sardo del principio del secolo, per appropriarsi un modo di vivere e di pensare non più regionale e da villaggio, ma nazionale, e tanto più nazionale (anzi nazionale appunto per ciò) in quanto cerca di inserirsi in modi di vivere e di pensare europei».

Ma come riesce quel Gramsci che si considerava e si definiva un «triplice e quadruplice provinciale», a sprovincializzarsi? Egli compie questo passo a Torino, con la severità dei suoi studi universitari, e con il contatto con la classe operaia organizzata di quella città. Gramsci incontra a Torino la classe sociale che storicamente è chiamata a un ruolo centrale nella vita politica italiana e a Torino egli comprende che proprio la classe operaia è classe nazionale e universale per eccellenza.

Ma proprio a Torino, Gramsci coglie anche tutti i limiti e tutte le insufficienze del movimento socialista italiano, ed è proprio lui che sarà chiamato a dare il massimo contributo al superamento di quel «provincialismo» di altro tipo che si esprimeva nelle angustie economicistiche, corporative, nordiste che caratterizzavano allora il movimento sindacale e politico dei lavoratori e che gli impedivano di acquisire la propria autonomia ideale e politica, e di esercitare la sua funzione nazionale organizzando intorno a sé un sistema di alleanze.

Fu questo quello che divenne il tema cardine della ricerca teorica e del lavoro politico di Antonio Gramsci: prima a Torino, poi come capo del PCI, infine nelle celle delle carceri fasciste.

Alla comprensione matura di quel tema cardine, Gramsci potè però giungere solo in forza di quell’evento storico decisivo che fu la Rivoluzione d’Ottobre del 1917 della quale egli fu il primo, in Italia, e forse nell’immediato — l’unico, a intendere la portata e la radicale novità. «La storia è dunque in Russia», ebbe ad esclamare Gramsci allora, con ciò volendo dire che con la vittoria del proletariato russo, grazie alla guida di Lenin, si era aperto il primo varco nel sistema capitalistico mondiale.

La vittoria della rivoluzione socialista in Russia, l’apparizione del leninismo, segnano un salto nella strategia, nella tattica, e nella stessa dottrina del movimento operaio. Gramsci è il più pronto a cogliere questo evento nel suo significato rigeneratore, per il colpo che esso dà a tutte le interpretazioni e applicazioni dogmatiche e meccanicistiche del marxismo allora proprie delle correnti socialriformiste e massimalistiche, interpretazioni e applicazioni che impedivano al proletariato di acquisire la propria autonomia ideale e politica nei confronti del capitalismo.

Ben a ragione Togliatti così si espresse proprio parlando della maturazione di Gramsci: «L’apparizione e lo sviluppo del leninismo sulla scena mondiale, è stato il fattore decisivo di tutta l’evoluzione di Gramsci come pensatore e come uomo politico di azione».

Ecco, alla luce di questi tre momenti centrali nel cammino ideale e politico di Gramsci — la Sardegna, Torino, il leninismo — si spiega l’originalità di tutto il suo successivo lavoro. Berlinguer ha qui richiamato alcuni dei concetti elaborati da Gramsci che sono ormai di uso corrente: il concetto di «blocco storico»; il concetto del partito come «moderno Principe» e come «intellettuale collettivo»; il concetto di una «riforma morale e intellettuale»; il concetto di «guerra di posizione» che esige — come egli dice — «qualità eccezionali di pazienza e di spirito inventivo». Lavorando su questi e altri temi — ha proseguito il Segretario del Partito — Gramsci si rivela in tutta la forza del suo impegno creativo, getta squarci di luce nuova su mille aspetti della storia, della politica, della cultura, della letteratura, della pedagogia, della vita popolare e fa compiere un passo avanti al pensiero marxista e leninista. E specialmente, ha aggiunto Berlinguer, con la concezione che egli afferma e con gli sviluppi che dà alla questione della egemonia, e cioè alla questione della affermazione della funzione dirigente della classe operaia — in un paese come l’Italia — attraverso il consenso e il dibattito delle idee.

Gramsci è infatti convinto che la funzione dirigente della classe operaia non è affermazione di parte, ma è la condizione stessa perché si compia un rinnovamento generale della società: cioè è funzione nazionale.

È qui, come disse Togliatti proprio in questa piazza nel ‘47 — ha citato Berlinguer — «il nocciolo del pensiero di Gram -sci, l’aspetto più originale della mente e della personalità politica del capo del Partito comunista. Per la prima volta nella storia del nostro Paese il socialismo diventa con lui non più soltanto un movimento di classi proletarie sfruttate in lotta per il miglioramento delle condizioni di esistenza e per la loro emancipazione sociale: diventa moto per il rinnovamento di tutta la società italiana, diventa movimento nazionale progressivo, liberatore».

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